E così l’Italia nel 2024 ha collocato un miliardo di bottiglie di spumante. Lo dice l’Osservatorio di Unione Italiana Vini. Il Prosecco, che con le sue tre denominazioni di origine (la Doc, il Conegliano Valdobbiadene e l’Asolo), conta all’incirca per tre quarti del totale, superando i settecentocinquanta milioni di bottiglie, di cui solo una piccola parte è frizzante, anziché spumante. Poi ci sono le bottiglie delle aree spumantistiche “vocate” (Asti, Franciacorta, Trento, Alta Langa, Lessini e Oltrepò Pavese, e ci metto anche le tipologie residuali del Lambrusco spumante, essendo in larghissima parte, invece, frizzante, e in più le poche manciate di bottiglie della altre denominazioni di origine il cui disciplinare preveda la tipologia spumante). L’altro centinaio di milioni di bottiglie è composto da spumanti fuori denominazione.
La domanda è: c’è di che esserne felici? In parte sì, perché fa piacere sentire che il vino si vende, e in parte no. La parte no è quella di tanti vini con le bollicine fatti con le uve più improbabili (bianche o rosse che siano) e nei posti più impensati, privi di alcuna tradizione spumantistica, quasi che ormai fosse un obbligo inderogabile produrre uno spumante. “Prima deve assolutamente assaggiare il mio metodo classico fatto con le uve di…” è ormai diventato il mantra di tante, troppe soste ai tavoli di molti produttori di vino in qualunque fiera, da quelle grandi a quelle di paese, e le uve in questione sono spesso di varietà che con lo spumante non ci hanno mai azzeccato niente. Qualche tempo fa, a una manifestazione vinicola, mi avvicinai alla postazione di un produttore dei cui vini bianchi avevo sentito parlare bene. Non volle sentire ragione, pretese che prima provassi il suo metodo classico fatto con un’uva mai spumantizzata prima. Provai, sputai nel secchiello gettavino, salutai e me ne andai; di assaggiare i suoi bianchi non ne avevo più voglia.
Ecco, io le bolle senza arte né parte non riesco più a sopportarle. Soprattutto, sono stufo di certi improbabili metodi classici nature che tagliano la bocca come fossero infarciti di lamette. Cantinieri miei, non è che mi dimostriate granché, nell’impuntarvi a farmi bere quei vini lì. Sono capace anch’io di raccogliere uve immature (magari provenienti dai diradamenti pre vendemmiali), metterle in pressa e trarci un vinello acidissimo e poi ficcarlo in bottiglia con lieviti e zuccheri e lasciarlo lì un po’ di tempo per tirarci fuori un qualcosa che fa la spuma, scortica il palato e non sa quasi di niente. Non è che chiamandolo nature giustificate un vino mal fatto.
Le bolle le bevo molto volentieri da sempre, ma devono essere buone, accidenti, e per farle buone ci vuole perizia, e ci vogliono le condizioni adatte. Spumantista non ti improvvisi, né puoi inventare in un baleno un territorio della spumantistica. Invece, adesso imperversa questa mania di fare spumanti dappertutto, anche dove non c’è storia, non c’è esperienza, non c’è il clima giusto, non ci sono i vitigni adatti, non c’è senso, ragione, motivo o giustificazione, se non provare a vendere qualche manciata di bottiglie in più, perché il mercato delle bolle “tira” e gli altri vini fanno più fatica.
Ravvedetevi, santo cielo, e fatemi bere, invece, dei vini sinceri, quelli che sapete fare davvero, quelli che vengono per la propensione naturale di una terra e di un’uva e mica per forza devono avere le bolle modaiole, e pazienza se in Italia faremo un po’ meno di un miliardo di bottiglie di spumante. Tanto, a inseguire le mode si è sempre in ritardo. I veri geni precorrono i tempi, gli altri fanno fotocopie sbiadite.