L’autoreferenzialità dei discorsi sul vino

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Chissà qual è l’ora esatta che c’è in questo momento sulla luna. Non è che puoi prendere l’orologio e dire che è quell’ora lì segnata sul quadrante. Quella è l’ora del tuo fuso orario qui sulla terra, ma lassù, sulla luna, che ora sarà? L’interrogativo lo riprendo da un articolo di Giovanni N. Ciulli comparso di recente sul settimanale d del quotidiano la Repubblica e si tratta di una domanda per nulla peregrina. In primo luogo perché nelle prossime missioni lunari, che pare possano essere frequenti, gli astronauti non potranno più agire senza coordinamento reciproco, e questo presuppone un orario condiviso, e poi perché la questione può essere traslata al mondo del vino, che è quello di cui mi occupo su quest’InternetGourmet.

Capiamoci, ancorché chi fa vino sia spesso convinto dell’influsso della luna sulle pratiche di cantina, non è questo il tema in discussione. Ciò su cui intendo soffermarmi è una faccenda che ha a che fare con la comunicazione del vino e con i suoi luoghi comuni, che a loro volta hanno a che vedere con il lunario, termine che dalle mie parti era usato in passato – e ancora lo fanno i vecchi – al posto di calendario, che è il nostro misuratore dello scorrere del tempo. Nel campo della misurazione del tempo, il caso più eclatante di fraintendimento è quello delle annate. In genere, infatti, si tende ad assolutizzarne il giudizio come se il concetto di annata fosse onnicomprensivo. Insomma, a una certa annata si attribuiscono in forma generalizzata i pregi di un andamento climatico assai favorevole, a un’altra i difetti di un meteo avverso. La cosa, più o meno, funziona se si pensa a un territorio ristretto: ad esempio, le Langhe. Funzionicchia se ci si riferisce a un’area più ampia, ma comunque accomunata da distanze non gigantesche e latitudini comuni: ad esempio, l’Italia settentrionale. Meno se si fa conto di un’intera nazione: ad esempio, l’Italia. Ancora meno se si confrontano paesi diversi del medesimo continente: ad esempio, Italia e Francia. Pressoché per nulla se il paragone è tra continenti diversi: vedi Europa e Stati Uniti. E comunque, sottostante a tutti questi paragoni, c’è un vulnus comune: si parla sempre di annata intendendo una vendemmia avvenuta, pressoché in contemporanea, nel medesimo emisfero terrestre, quello che convenzionalmente definiamo nord. Ma c’è un mare di vino che viene dall’altro emisfero, e là la vendemmia è spostata di sei mesi rispetto alla nostra. Dunque, se parlo di un vino dell’annata 2021 a un italiano, a un francese o a un californiano, intendiamo tutti che ci stiamo riferendo a un vino che viene da uve raccolte grosso modo tra agosto e ottobre del 2021, il che è un arbitrio bello e buono, perché per i neozelandesi, i sudafricani e i cileni l’annata 2021 è nata quando qui eravamo ancora in inverno o in primavera.

Vedete quanto siamo autoreferenziali quando parliamo di vino? Vendiamo vino in tutto il mondo, ma continuiamo a pensare in forma locale. Questo localismo discorsivo, che in assenza di codici di linguaggio comuni diventa pressoché incomprensibile a chi appartenga ad altre culture, si manifesta in quasi tutta la comunicazione del vino. Ne ha parlato di recente Jacopo Cossater in un suo articolo sull’inserto Cibo del quotidiano Domani: “Dobbiamo smettere di pensare che l’Europa sia il centro del mondo“, titolazione coerente con quant’ho appena detto sopra. “Quando parliamo di vino ci riferiamo per forza di cose alla cultura occidentale”, scrive Jacopo, aggiungendo anzi che “nel vino ogni parola riflette l’esperienza europea”. Conseguentemente, anche l’abbinamento tra cibo e vino viene perennemente riferito all’esperienza europea. Ma se voglio vendere il mio vino a un consumatore di qualche regione dell’Asia o in qualche stato degli Usa, devo smetterla di proporre abbinamenti con le ricette della cucina dei luoghi d’origine del vino, costituita da “piatti perlopiù sconosciuti a centinaia di milioni di persone i cui riferimenti si agganciano a contesti gastronomici molto diversi“. Ne ho avuto una dimostrazione lampante qualche mese fa nel corso di un press tour di giornalisti nordamericani nell’area del “mio” lago di Garda. Mi chiedevano degli abbinamenti per il Bardolino e io glieli ho espressi sulla base della mia apppartenenza territoriale. Ma un texano mi ha detto che lui il Bardolino lo berrebbe soprattutto sui tacos. Ci ho pensato e ha perfettamente ragione: tacos e Bardolino sono un abbinamento perfetto, solo che è lontanissimo dalla mia esperienza quotidiana, così come lo è per lui il risotto col tartufo nero che suggerivo io. Facciamo leva su esperienze diverse, e bisogna tenerne conto per poterci comprendere.

Così, se prima o poi dovremo abituarci all’idea che l’ora della luna è diversa dall’ora di casa nostra, è meglio che molto prima ci abituiamo a pensare che se vogliamo che in giro per il mondo continuino a bere i nostri vini, magari è bene che adattiamo le presentazioni all’esperienza quotidiana dei nostri interlocutori.