E se anche nel vino il meglio fosse nemico del bene?

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Sulla Revue du Vin de France ho letto alcune “Riflessioni sul Bordeaux” di Olivier Poels che mi hanno fatto meditare. Perché mi sembrano valide – e lo sono – per molte altre regioni vinicole al mondo, Italia compresa. L’occhiello spiega già tutto o quasi: “La qualità dei cru non è mai stata così buona. Ma sembra che si sia imposta a discapito della diversità”.

Il tema, dicevo, è universale. In tante aree vinicole gli standard qualitativi son certamente cresciuti, ma questa crescita ha portato a una diffusa omologazione produttiva, che ha fatto affievolire e a volte smarrire le mille sfaccettature del terroir.

“L’uniformazione delle tecniche – si chiede Poels -, il ricorso ai medesimi enologi o consulenti, la medesima ricerca estetica del profilo gustativo del vino non conducono Bordeaux verso un’armonizzazione generale? Una sorta di livellamento verso l’alto, che cancellerà tutte le imperfezioni, le originalità, in breve, ciò che costituisce la personalità di un cru”. E ci tiene a precisare che il suo non è mica un discorso reazionario, e che certamente non si rimpiangono i tempi del brettanomyces o delle acidità volatili mal gestite o degli acini poco maturi. “Certamente no” dice. Però mano a mano i vini si son fatti troppo simili l’uno all’altro.

Poels ricorda poi quel che diceva Voltaire: “Il meglio è nemico del bene”. Ecco, sì, temo anch’io che il meglio a tutti i costi finisca per essere nemico del bene, mica solo a Bordeaux.

Nel mondo del vino la ricerca sfrenata all’ottimizzazione enologica ha finito molto spesso per portare a fare i vini con lo stampino. Ottimi tecnicamente e anche igienicamente, ma tante volte senz’anima. Fatti in fotocopia. Vini Rank Xerox. Siamo sicuri che è proprio questo che vogliamo?

Articolo originariamente pubblicato il 27 giugno 2011