Alla ricerca del talento dei territori

giotto_wl_500

Federico Giotto, enologo e consulente in molte parti dell’Italia e del mondo, con alle spalle già una bella serie di successi, lo conosco dalla fine degli anni Novanta; però da quando l’aveva aperta, nel 2006, non ero ancora stato nella sua fucina, la Giotto Wine Listeners. Adesso ho colmato il vuoto, e come sarebbe andata a finire lo sapevo benissimo ancora prima di mettermi in viaggio verso Farrò, località del comune di Follina, sulle colline del Prosecco di Conegliano e Valdobbiadene. Ero insomma del tutto consapevole che con lui è inevitabile che il discorso voli al di là dei confini tecnicistici, che peraltro non mi interessano granché. Infatti, la nostra chiacchierata ha preso l’abbrivio dal concetto, che gli sta molto caro, del “talento del territorio“.

“Ero e sono convinto che ci dev’essere qualcosa che rappresenta un’idea di talento di un territorio. Se un territorio ha del talento, ci coltiviamo le vigne, altrimenti no” mi ha detto Federico. Per me ha ragione, e penso che la talentuosità sia una maniera per descrivere quel che i francesi chiamano terroir. “Ogni vigneto – dice – si rivela come un universo di possibilità, e il nostro impegno è di aiutare il produttore a tradurre queste possibilità in vini che non solo esprimano l’essenza della loro provenienza, ma riflettano anche un pensiero profondo”. Il pensiero è il segno dell’umanità, e l’umanità è alla base della mia idea di terroir. Per questo sposo la sua tesi, quando dice che bisogna scegliere i luoghi talentuosi per coltivarci la vigna, e invece – dico io – purtroppo in Italia nei decenni passati ho visto piantare vigneti anche su suoli che il talento viticolo non ce l’hanno mai avuto. Una prova in questo senso me la fornì la gelata della primavera del 2017: le vigne sui terreni storici sopravvissero, quelle piantate dove prima c’era la polenta seccarono. Amen.

L’idea del talento Federico l’ha coltivata con un obiettivo ambizioso, quello di “emancipare il vino da una visione univoca, stereotipata“, e la visione, nei primi anni Duemila, era quella del consulente enologico che applicava la medesima ricetta in ogni dove. Lui era invece convinto che bisognasse favorire il confronto tra professionalità diverse, che lavorino tutte dentro a un progetto ritagliato sui singoli luoghi, perché non c’è un progettualità vinicola che regga se non va di pari passo con una progettazione viticola, e viceversa; il tutto, peraltro, avendo sempre ben presente che “la tecnica è uno strumento importante nel momento in cui esalta quel che c’è di buono e di diverso nella natura, ma è appunto solo uno strumento, che presuppone un’idea, un progetto, un potenziale”, e si torna all’aspetto umano. Altrimenti, si finisce dentro al buco nero della globalizzazione tecnologica. Vedi ad esempio la moda delle macerazioni spinte, che finiscono per dare ovunque vini più o meno uguali, spogliati dai caratteri dei luoghi e delle vigne. “Non si può fare tutto dappertutto, bisogna valorizzare le identità“, sbuffa. Per me, sono parole sante.

Già, ma con la natura che si sta ribellando, come la mettiamo? Federico mi obietta che bisogna “presidiare il naturale cambiamento delle cose“, magari introducendo nuove varietà nei disciplinari di produzione delle denominazioni di origine, oppure valorizzando certi vitigni meno utilizzati, che talvolta sanno reagire meglio al mutare del clima; inoltre, ci vogliono nuove forme di vinificazione (il team dei Wine Listeners di Federico Giotto ha realizzato brillanti ricerche sul cemento e sull’anfora, per esempio) e nuove forme agronomiche. Insomma, non c’è una soluzione sola: tutto va considerato in maniera complessiva, come in un progetto d’architettura.

Purtroppo, dico io, anche dove ci siano menti illuminate e visioni luminose, c’è però da fare i conti con le lentezze della burocrazia, con un sistema farraginoso di gestione delle denominazioni di origine, e questo a ogni livello, dal locale fino al nazionale. Sostengo che ci vuole una rivoluzione, perché si affermi l’evoluzione dell’idea del vino. Sono peraltro convinto che se la rivoluzione non sarà fatta dalla politica e dalle forme di rappresentanza del settore, a spingerla sarà il bevitore, stufo di vini sempre più imbevibili, perché figli di un’idea standardizzata, non più al passo coi tempi. Però si può coltivare l’ottimismo. “Siamo di fronte ad un momento storico molto particolare – riflette Federico -, ricco di sfide, ma come sempre accade anche di grandi opportunità”. Io la penso esattamente alla stessa maniera: non c’è crisi che non proponga nuove opportunità, quando si mettano al centro i talenti.