Michele Antonio Fino è un illuminista contemporaneo. È illuminista perché, per indole e vocazione personale e per mestiere – professore ordinario di diritto romano e fondamenti del diritto europeo all’Università di Scienza Gastronomiche di Pollenzo -, fa radicale e rigoroso affidamento sulla ragione, sull’evidenza scientifica e sulle norme giuridiche; è contemporaneo poiché riflette sui casi del tempo presente e sulle loro ripercussioni in termini di economia, di convivenza civile e di socialità e utilizza, per divulgare e dibattere il proprio pensiero, sia gli strumenti classici della comunicazione (la docenza, l’attività seminariale, i libri, gli articoli di giornale), sia quelli informatici (il web e i social media). Suppongo che questo composito atteggiamento verso la conoscenza e la divulgazione gli derivi anche dal fatto che l’insegnare lo sollecita al confronto con le mutevoli opinioni dei ragazzi e in più dall’essere e dal definirsi vignaiolo, accettando in tal modo, consapevolmente, di attribuirsi una menzione di per sé, ad ora, insussistente sotto il profilo giuridico, e quindi virtualmente antitetica al proprio modo di porsi (semmai sarebbe vitivinicoltore o coltivatore diretto), ma che trabocca di umanità, di fatica e talvolta di sentimento. (Per inciso, a me l’appellattivo “vignaiola” o “vignaiolo” piace moltissimo.)
L’opinione che ho espresso, e che non so fino a che punto l’interessato possa effettivamente sentire propria, mi proviene dalla maniera in cui Michele sintetizza l’idea del terroir, definendolo come “composto da spazio geografico, vitigno coltivato, cultura e valori di chi vinifica“, con ciò mettendo a fattor comune elementi di natura empirica (il luogo e il vitigno) e altri di natura umana (il savoir faire del produttore). Il terroir, poi, seconda la sua impostazione, trova espressione attraverso un distretto vinicolo, che corrisponde a un luogo (e un luogo su cui vive una comunità di persone, aggiungo io) e conseguentemente a una denominazione di origine (Barolo, Valpolicella, Champagne), ma che talora può esprimersi anche senza un distretto, e quindi perfino senza denominazione (“Sassicaia, con quell’enologo e quel vitigno, era già un grande terroir prima di avere la denominazione di origine”, spiega). Peraltro, è chiaro che una denominazione di origine che pretenda di essere degna di riconoscimento non può prescindere dall’esistenza di un distretto.
Gli ho sentito pronunciare questi concetti nel corso della presentazione del suo libro “Non me la bevo” (Mondadori) tenuta alla Società Letteraria di Verona. Giacché ne hanno scritto in molti, è piuttosto noto che nei dieci capitoli di quest’opera Michele Antonio Fino va al sodo senza tante perifrasi, smantellando passo dopo passo vari luoghi comuni che attengono alla narrazione superficiale del vino. Sottolinea, per esempio, che no, non è vero che il vino “si è sempre fatto così”, e nemmeno che faccia “buon sangue”, perché il vino contiene l’alcol, e non c’è quantità minima di alcol che ci esenti da rischi alla salute, così come non corrisponde a verità che le nostre denominazioni siano “millenarie” o che il “vino contadino” sia sempre il migliore, ma si tratta di dettagli conosciuti a chi abbia letto il libro o ne abbia scorsa una delle molte recensioni uscite nei mesi passati. Quel che invece voglio sottolineare è che l’obiettivo di fare chiarezza su questi e su altri argomenti Michele lo persegue nel nome della consapevolezza. Non a caso il sottotitolo del libro recita proprio: “Godersi il vino consapevolmente senza marketing né mode”. E qui riprendo, dunque, il ragionamento fatto riguardo al terroir. Nel mentre il terroir può esprimersi in maniera duplice, ossia tramite un distretto o anche senza di esso, la consapevolezza ha un legame indispensabile con l’informazione. Insomma, non può esistere senza.
Prendiamo la questione della nocività dell’alcol. C’è chi si straccia le vesti singhiozzando che sono nemici del vino coloro che lo assimilano all’alcol, sebbene la presenza dell’alcol nel vino sia un dato di fatto conclamato (tranne il caso dei vini dealcolizzati, ovviamente). Dunque, a fare informazione nociva non è chi dice che il punto esiste, bensì chi nega l’evidenza della rischiosità. “Dobbiamo essere consapevoli dei rischi dell’alcol per essere liberi di scegliere“, ha affermato Fino a Verona, e sarebbe stata sufficiente questa sola frase perché valesse la pena partecipare all’incontro, giacché rappresenta l’elogio della libertà individuale. Per essere liberi, infatti, occorre essere informati, e questo vale nella scelta di bere un bicchiere di vino, così come in qualunque altra decisione che si assuma nella vita, ivi compreso l’esercizio del diritto di voto. Leggere un libro come quello di Michele consente di essere informati, e dunque di scegliere con maggior libertà. Questo è il motivo per cui certi libri vanno scritti e meritano di essere letti.
Michele A. Fino, “Non me la bevo”, Mondadori, euro 19


