Viva l’Aligoté e Les Aligoteurs!

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Se chiediamo a qualsiasi appassionato quale regione appaia nel suo immaginario ideale, credo una buona parte indicherà la Borgogna in testa alle preferenze. In tal caso, subito alla mente le vigne più prestigiose ed inarrivabili, inaccessibili ai portafogli di un qualsiasi mortale. Curioso che questa lontananza, questo respingimento, non facciano altro che alimentare il desiderio per questi vini. Pinot noir e chardonnay sono le varietà che occupano questo immaginario. Dimenticando, in questa ricerca dell’inarrivabile, che ci sono zone della Borgogna dove si possono bere cose straordinarie senza dover chiedere un fido in banca. E dimenticando che esiste anche un’altra varietà capace di dare risultati straordinari. E a costi molto abbordabili.

Sto parlando come avrete intuito, dell’aligoté. Il Dictionnaire des Cépages (Pierre Galet, 2015, editore Libre et Solidaire) definisce l’aligoté come una “varietà di uva bianca coltivata in Borgogna, che sembrerebbe ottenuta dall’incrocio tra pinot noir e gouais” aggiungendo che si tratta di una “varietà vigorosa, che germoglia presto, rustica e che si adatta bene ai fianchi delle colline”. Spiega poi che “l’aligoté produce un vino leggero, un po’ acidulo, povero in tannini e poco profumato, che invecchia facilmente. Va bevuto giovane, e spesso è consumato mescolato alla crème de cassis (si ottiene così il kir)”.

Certo non è facile scalfire la cattiva reputazione dell’aligoté, per anni modesto vino usato per cocktail come il famigerato kir, o vino servito nei bar ai clienti più anziani e poco attenti a quello che veniva versato nel bicchiere. Era un liquido senza colore, con odori nel migliore dei casi solfitici, e con un palato magro e acido. Insomma, una cosa imbevibile ma a buon mercato.

Un gruppo di produttori irriducibili ha creato da un paio d’anni una associazione, Les Aligoteurs, che ha lo scopo di far conoscere le migliori espressioni di questa varietà.

In realtà l’idea di proporre una diversa visione dell’aligoté nasce cinque o sei anni fa, grazie alla volontà di un gruppetto di ristoratori e produttori, tra i quali va segnalato Sylvain Pataille a Marsannay.

Girando per i vigneti si è scoperto che esistevano vecchi appezzamenti di aligoté, coltivato in selezione massale e talvolta ad alberello. E la degustazione di vecchie bottiglie ha confermato che i vini che ne derivano hanno una complessità che sfida il tempo. L’impresa è dimostrare che non si tratta di una varietà di seconda categoria rispetto al più nobile chardonnay. Secondo i vignaioli, in realtà la varietà più identitaria della Borgogna è proprio l’aligoté. La grandezza di un’uva è quella di saper trascrivere il terroir. Bene, l’aligoté riesce a farlo splendidamente. Se quindici anni fa tutti o quasi toglievano le piante di aligoté per far posto a chardonnay e pinot noir, oggi le cose sono diverse. Molti appassionati o ristoratori hanno (ri)scoperto le sue qualità gustative, la sua capacità di stare a tavola senza voler prevalere. Complice anche l’aumento sconsiderato dei prezzi dei grandi vini di Borgogna, l’interesse per questa varietà sta aumentando rapidamente. E questo è anche il bello della nostra passione: fare delle scoperte là dove non le attendi. Senza dimenticare che spesso parliamo di produttori inarrivabili, ma accessibili per quanto riguarda l’aligoté.

Cos’ha di particolare questo vino? Rubo le parole di un vigneron, Laurent Fournier: “Sono dei vini che riflettono il loro terroir, con uno stile totalmente in sintonia con i tempi che viviamo: dei vini tesi, cesellati, minerali, con sostanza e lunghezza.”

Tra gli Aligoté che ho assaggiato alla Cartonnerie di Parigi, questi sono quelli più interessanti.

Charles Audoin. Il 2018 è fine, profumato e delicato, con finale piuttosto morbido e di grande pulizia (85/100). Il 2017 è più verticale e vegetale, ma presenta una vibrazione molto interessante. Finale di muschio bagnato (86/100).

Jean-Claude Boisset. Les Moutots 2017 è abbastanza bloccato dal legno, ma la materia è fluida ed acidula (81/100). L’Aligoté 2015 ha un miglior rapporto con il legno grazie ad una materia più consistente (82/100)

Domaine Bersan. Coltiva su suolo calcare nel nord della Borgogna, a Saint-Bris. Purtroppo il 2018 non era a posto, ingiudicabile. Il 2017 il vino si porge fine e delicato, ma sembra fermato dai solfiti (82/100), mentre il 2015 presenta una bella tensione, un corpo maturo e ricco, aromi di erbe e un finale salino (88/100).

Brett Bros. Qui invece siamo nel sud della regione, a Saint-Véran. il 2018 è ricco, fine, aperto, al palato presenta spezie come la cannella e la mela matura. Un vino giovane che evolverà molto bene (87/100).

Domaine Bonnardot. Ci spostiamo nelle Hautes-Côtes de Nuits. Il 2016 va atteso, una materia piccolina e con sentori verdi di vegetale, ma ha fondo e potrebbe evolvere bene (84/100). La versione 2017, pur evidenziando uno stile simile, ha un palato più pieno, più sale e un finale fumé (87/100).

René Bouvier. Nello stile della casa, il Vieilles Vignes 2017 ha bella materia e purezza, ma forse meritava una mano più leggera in cantina (85/100).

Domaine Derain. Il Sextant 2018 è un vino lungo e minerale, molto persistente, tra i migliori (90/100). Molto buone anche le bollicine del Méthode Tradionnel.

Domaine Fichet. Un 2018 moderno, una versione tutta frutto, pulito e molto piacevole (87/100).

Jean Fournier. En Avonne 2018 viene da un suolo di marne. Succoso, il legno è usato con dovizia, il finale ha un ritorno di vaniglia (85/100). Il Champ Forey 2018 viene da un suolo di calcare bianco. Vino serio, ha molta materia, fine e profondo al tempo stesso, una espressione giusta del carattere della varietà. Bel finale. (90/100). Aux Boutières invece risente dell’affinamento in legno (82/100).

Roblet-Monnot. Per Côtes de Nantoux 2017 si è andato alla ricercar della potenza. C’è anche della acidità ma l’insieme non mi pare equilibrato (81/100).

Rollin Père et Fils. Il 2018 è strano, fumé e forse bloccato dai solfiti. Peccato perché c’era materia, forse si farà in due o tre anni (82/100). Il 2017 è migliore, al naso alterna fiori al miele, ha una bella lunghezza (84/100).

Gachot-Momot. Il 2018 ha troppo legno e il vino si perde (82/100), meglio il 2017 con aromi di erbe e carciofo.

Jean-Hugues&Guilhem Goisot. Siamo ancora a Saint-Bris. Il 2018 ha una materia solare che riesce a fondersi con un legno usato con discrezione, buon finale dove esce il sale (88/100). Il 2015 dimostra una eccellente evoluzione in bottiglia, è complesso con aromi di spezie e miele, lievito di birra, nocciole. Lungo e sapido, un vino a vocazione gastronomica (91/100). Il 2014 si rivela più nervoso e sottile, ha note vegetali che tradiscono una maturità più risicata. È però gradevole (85/100). Il 2010 ha una presenza più importante di legno. Complesso, presenta aromi di argilla, lievito e spezie. Grande freschezza, vino ancora vivo 92/100.

Segnalo che in una stanza separata era possibile degustare annate anche molto vecchie, alcune degli anni ’80. Per motivi di tempo non sono riuscito a prendere nota dei vini, ma i migliori erano davvero straordinari, a conferma che non esistono uve mediocri, ma produttori mediocri.

Cercate l’aligoté.