Che voglia o no, il vino diventa più sostenibile, subito

bottiglie_vetro_bancale_500

Quando arriva un cambiamento, rivoluzionario o evolutivo che sia, c’è chi lo capisce e si sa adattare (e talora vive meglio di prima) e chi invece non capisce e ne viene travolto. Spesso, a percepire per primo il cambiamento è chi sta ai vertici dell’economia, della politica, della società civile, delle istituzioni pubbliche, civili, religiose, e dunque è anche il primo a riadattarsi, cambiando (a volte più in apparenza che in sostanza) la propria pelle, per conservare la primazia. “Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi” dice Trancredi, il nipote del principe di Salina, nel “Gattopardo” di Giuseppe Tomasi di Lampedusa.

Nel mondo del vino, siamo probabilmente alla vigilia di un cambiamento epocale all’insegna di un sostantivo, quello della “sostenibilità”. Il momento in cui il mondo vitivinicolo dovrà, volente o nolente, adattarsi alle pratiche della sostenibilità è così vicino che se ne vedono già i cambiamenti in fase di adozione da parte dei player di maggiori dimensioni, quelli per i quali risulta vitale, per sopravvivere e continuare a primeggiare, adattarsi al nuovo che avanza, possibilmente precorrendo i tempi. Del resto, la direzione che hanno preso le autorità comunitarie è chiarissima, e pare che le prossime forme di cofinanziamento pubblico europeo saranno anch’esse orientate a spingere verso le pratiche ritenute più “sostenibili”. O così o niente soldi. Dunque, così.

Nei fatti, tutte le diverse pratiche della viticoltura e della produzione del vino ne potranno teoricamente essere toccate. Banalmente, dall’eliminazione della plastica nei vigneti alla riduzione del peso dei vetri delle bottiglie, dalla produzione di energia alternativa alle scelte agronomiche e fitosanitarie, dalla carta utilizzata per la stampa delle etichette allo smaltimento degli scarti di lavorazione, e l’elenco potrebbe essere (e certamente sarà) lunghissimo. Sono scelte importanti, che avranno un impatto consistente sull’organizzazione delle attività della vigna, della cantina, della logistica e del marketing, e che per questo richiederanno anche investimenti economici significativi e certificazioni onerose, che dunque saranno più alla portata delle grandi imprese che dei piccoli vignaioli, e questa sembra una contraddizione, ma non lo è.

Le conseguenze di ogni singola scelta adottata scateneranno un effetto domino, in parte già in atto, che verrà percepito anche attraverso le scelte in fatto di packaging. Ad esempio, le bottiglie di vetro pesante, che oggi sono considerate un simbolo di opulenza e di ricchezza del vino, cominceranno ad essere viste con sospetto crescente. Con la loro più o meno graduale scomparsa (penso che non sarà affatto graduale, ma rapidissima) verrà meno anche la percezione qualitativa di certe ritualità tipiche del vino. Per esempio, la stappatura del sughero, sempre più sostituito da chiusure alternative, non tutte felicissime a dire il vero.

Prendiamo il tappo a vite. Nell’ormai lungo periodo della pandemia, il suo utilizzo è aumentato perfino nei paesi più conservatori come Italia, Francia e Spagna. Vi è chi sostiene, non senza ragione, che il motivo principale sia lo spostamento degli acquisti in direzione di vini meno costosi, reperiti soprattutto in grande distribuzione. Prendo la spiegazione per buona, ma evidenzio che comunque si è verificata una progressiva caduta della diffidenza verso le chiusure alternative, e questo è un fatto culturale, che si sposa con quell’effetto domino di cui dicevo sopra.

Insomma, mi aspetto novità. Forse più velocemente di quel che ci si può aspettare. Magari sbaglio, oppure ci indovino appena un po’, ma credo che sia comunque meglio prepararsi. I grossi operatori lo stanno già ampiamente facendo. Il che non è un male, anche se è fatto più per necessità che per convinzione.