Tracce di rosa parte #2

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Com’è destino di tutte le cose del mondo, anche le rivoluzioni nascono e si estinguono, talora travolte dalla restaurazione, altre consolidandosi e trasformandosi tramite un’evoluzione, che le superi e le rinnovi; comunque, le rivoluzioni non si innescano mai invano, e lasciano sempre una qualche traccia di sé.

Nel caso di quella cosiddetta rosé revolution del Chiaretto bardolinese del 2014, di cui fui il promotore in ambito consortile e in qualche misura – mi si permetta una parola grossa, ma è per capirci – l’ideologo, avendola progettata e pensata a partire dal 2008, resta una Traccia di Rosa, quella dell’azienda agricola Le Fraghe di Matilde Poggi, così come restano vini quali il Gaudenzia di Vigneti Villabella, il Barbagliante di Gentili, l’In Anfora di Zeni 1874 o altre espressioni ancora, seppure non molte, di un Chiaretto che sta in cantina per almeno un anno, e anche più, prima di presentarsi al mercato, cosa inaudita e impensabile sinché non proposi il passo compiuto esattamente un decennio fa. Credo che oggi sia finalmente palese anche per gli scettici della prima ora che non si trattò di una rivoluzione opportunistica basata sul colore, ma che lo schiarimento di tonalità era semmai la conseguenza dell’orientamento a lavorare sulla viticoltura specializzata della corvina veronese, uva di cui portammo progressivamente la possibilità di utilizzo per disciplinare dal 60% fino al 95% dell’uvaggio, e sulla pressature delle uve (anziché sulla macerazione e sul salasso), non già per una scelta cromatica in stile – come allora si diceva – provenzale, quanto invece per valorizzare le prerogative della medesima corvina e il suo potenziale sapido e agrumato, e dunque per fare vini rosa longevi, dall’indole integralmente territoriale.

È anzi significativo – nonostante le guide e i concorsi non suscitino più la fascinazione di qualche anno fa (ma secondo me hanno tuttora la capacità di cristallizzare le tendenze della critica) – che il Traccia di Rosa delle Fraghe sia stato, sul finire dello scorso anno, il primo Chiaretto di Bardolino a ottenere i tre bicchieri del Gambero Rosso e l’abbia fatto con il vino della vendemmia 2021, e che in marzo il Gaudenzia dei Vigneti Villabella sia stato decretato il miglior rosé del mondo dal Concours mondiale de Bruxelles e in questo caso l’annata sia stata la 2019. Confermando, in tal modo, che il Chiaretto di Bardolino, per le uve da cui proviene, per la storia ben più che millenaria che ha alle spalle e per il territorio che gli è padre, è un vino di terroir, che dà il meglio di sé con l’affinamento molto prolungato, come avevo ipotizzato – ma solo sulla carta, giacché all’epoca vini come quelli citati ancora non esistevano -, come ora si sta riscontrando nei fatti, e come, anche, sta emergendo in alcuni degli eventi organizzati in vari ristoranti europei dall’associazione francese Rosés de Terroirs. Insomma, adesso il Chiaretto di Bardolino è un vino che ha acquisito una dignità propria e che, nelle sue versioni più d’avanguardia, si è affrancato dall’ansiosa e deleteria frenesia delle uscite pre-primaverili e dai rituali della stagionalità turistica estiva, proponendosi quale accompagnatore dell’alta gastronomia.

La rivoluzione sembra compiuta, ed è il momento di archiviarla come un passaggio della storia vitivinicola locale, nella speranza che il rinnovamento innescato possa consolidarsi e ulteriormente evolversi verso quella dignità del grande vino rosa, che ancora in Italia stenta ad affermarsi.

(Scrivo queste considerazioni a un anno di distanza dalla cessazione definitiva della mia collaborazione con il consorzio bardolinese, stimolato da una recente degustazione verticale del Traccia di Rosa delle Fraghe.)