Il senso dei trentini per il vitigno

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Ci sono regioni o province che fondano l’identità dei loro vini sul nome del territorio, altre che privilegiano il nome del vitigno. A Verona, per esempio, il caso è il primo: Valpolicella, Soave, Bardolino, Custoza sono tutte menzioni geografiche. Nella confinante provincia trentina, invece, domina la denominazione varietale: pinot grigio, marzemino, teroldego, nosiola. Esisteva una sola zona del Trentino vinicolo in qualche modo esente dal predominio del nome di vitigno, ed era la Valle dei Laghi con il suo Vino Santo (a dire il vero, ci sarebbe il Trento, ma in questo caso il nome geografico della denominazione spumantistica è stato incomprensibilmente annichilito da un marchio commerciale, Trentodoc). Ho usato l’imperfetto, perché, avendo deciso la benemerita associazione dei Vignaioli del Vino Santo di puntare su un vino rosso, la scelta è stata ancora una volta inesorabilmente varietale. Infatti, il nuovo vino lo hanno chiamato Reboro, dall’uva rebo, una varietà troppo a lungo misconosciuta, seppure piuttosto interessante, ideata nel 1948 dall’agronomo Rebo Rigotti, abitante della valle, incrociando merlot e teroldego.

Del resto, il senso trentino del vitigno è emerso chiaramente anche durante il convegno di presentazione del Reboro svoltosi a Santa Massenza, sull’omonimo laghetto. “La tipicità è il vitigno, e quando è coltivato da secoli costituisce il requisito per dire che è tipico” ha affermato Gianpaolo Girardi, patron di Proposta Vini, validissima società trentina di distribuzione vinicola. “Il nome del vitigno è fondamentale” ha ribadito Fulvio Mattivi, noto ricercatore presso la Fondazione Edmund Mach, trentina. Per parte mia, dissento. A mio parere, infatti, l’elemento basilare di una identità vinicola è costituito dal territorio, che è unico e irripetibile, e dall’interpretazione che ne dà la comunità dei vignaioli. Barolo è Barolo, anche se il vino è fatto interamente con il nebbiolo, per dire.

Il Reboro nasce sul finire del primo decennio degli anni Duemila. Per produrlo, le uve del rebo vengono fatte appassire sui graticci fino a novembre inoltrato e, dopo, il vino che se ne trae matura per tre anni in botti di rovere. “Un processo lento, che dona un vino morbido ed elegante, ma scattante e dal grande potenziale di invecchiamento” dicono i protagonisti dell’operazione, che sono le cantine Maxentia, Francesco Poli, Giovanni Poli e Pisoni.

L’uso locale dell’appassimento è, dal punto di vista culturale, del tutto legittimo. La tecnica dell’appassire le uve appartiene infatti al dna enologico della zona. Il Vino Santo, che qui si produce, è il vino che deriva dal più prolungato processo di appassimento che si conosca al mondo. A garantire una lenta e perfetta disdratazione del frutto è il vento che dal lago di Garda spira sino ai laghetti di Toblino e di Santa Massenza, l’Ora, pure ricordata nel nome del Reboro. Ci sta che si pensasse di applicare una tecnica simile anche per la produzione di un vino rosso di notevole struttura, anche se la tendenza attuale è di segno opposto, ossia verso vini più giocati sulla leggerezza e sulla finezza. Piuttosto, mi domando se la tecnica dell’appassimento possa davvero garantire di produrre vini che siano, come è nei desiderata dei produttori locali, di “grande potenziale di invecchiamento”. Da quanto ho potuto assaggiare, non mi sbilancerei in tale direzione. Anzi, mi pare che questo Reboro dia il meglio di sé quand’è più vicino all’imbottigliamento, che non molto più avanti. Per esempio, di Pisoni ho preferito l’annata 2017, dal frutto scattante e dal tannino vivido e rustico, piuttosto che la 2011, che ho trovato abbastanza evoluta. Mi è anche piaciuto molto il 2015 di Francesco Poli, che ha nell’indole giovanile del frutto il proprio punto di forza. Insomma, io punterei ai primi anni dopo l’affinamento, come nel caso, per esempio, dei rossi di pari indole e struttura della Côte-Rôtie.

Mi concentrerei, inoltre, su quei due elementi che ha benissimo definiti Alessandro Torcoli nell’introdurre il convegno che ho sopra menzionato: la tipicità e l’identità. L’identità, ha affermato Torcoli, è “la capacità di essere riconosciuti“, e meglio di così non l’ho mai saputo dire. La tipicità, invece, è l’insieme di caratteristiche e di regole produttive che formano l’impalcatura di una denominazione o un tipo di vino. Ebbene, se la freschezza è, insieme, l’elemento caratteriale sia dell’uva, sia del territorio (grazie al vento gardesano), a maggior ragione penso che la freschezza, piuttosto che l’evoluzione, possa essere l’elemento identitario del vino Reboro. Ma è solo un mio parere.

Intanto, plaudo al fatto che un piccolo gruppo di produttori di un territorio ristretto (e bellissimo) abbia deciso di lavorare unitariamente a un progetto accomunante (hanno perfino ideato una bottiglia ad hoc, in vetro marrone). Ha ragione Torcoli: il caso del Reboro fa riflettere sull’opportunità, e a volte la necessità, di creare un brand che veicoli la volontà comune di un’associazione nata in una zona specifica e delimitata per realizzare qualche cosa di nuovo e di diverso. La tradizione, in fondo, è sempre quel che rimane di un’innovazione riuscita bene.