Quei tre luoghi che danno sostanza alle uga del Soave

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Una variante approvata nel 2019 introdusse trentatré unità geografiche aggiuntive nel disciplinare di produzione della denominazione di origine controllata del Soave. All’epoca espressi il mio disappunto per una innovazione che, nella sostanza, mi sembrava solo nominalistica. Infatti, la normativa relativa alle unità geografiche aggiuntive non determina alcuna diversità rispetto alle previsioni generaliste del disciplinare, ad eccezione dei soli contorni geografici. Onestamente, un po’ poco per poter parlare di cru.

A dare sostanza alla definizione delle uga c’è l’iniziativa di un’azienda che negli ultimi decenni ha fortemente contribuito a costruire la storia qualitativa del Soave moderno e che ora gli offre un ulteriore, importante contributo. L’azienda è Suavia, una delle pochissime rimaste a realizzare tutte le operazioni vitivinicole in alta collina, dalla coltivazione del vigneto alla vinificazione, fino all’imbottigliamento e alla commercializzazione. Il progetto si chiama “I Luoghi“.

Alessandra, Meri e Valentina Tessari, le tre sorelle che conducono Suavia, avevano già presente, intuitivamente, che da tre loro vigneti ricadenti in altrettante uga si tirassero fuori uve e potenzialmente anche vini dissimili tra loro. Le vigne sono quelle di Fittà, dove hanno un ettaro e mezzo, di Tremenalto, su due ettari, e del Castellaro, dove il vigneto aziendale è meno di un ettaro. Con la vendemmia del 2020 decisero di vinificarne separatamente le uve di garganega, adottando però, in tutti e tre i casi, il medesimo protocollo e vendemmiando in contemporanea, in modo da togliere di mezzo ogni distorsione derivante dall’attività umana. “Volevamo far uscire il fattore naturale“, mi ha detto Alessandra.

Gli assaggi di vasca furono lampanti: si trattava di tre vini completamente diversi. La questione era capire il perché. La risposta la chiesero al pedologo Giuseppe Benciolini, cui diedero l’incarico di investigare i suoli delle tre vigne – tutti vulcanici, ma molto diversi per densità e composizione – e i loro ambienti (le esposizioni e le inclinazioni dei terreni, per esempio). “È chiaro – sottolinea Alessandra – che se gli ambienti sono diversi, le vigne ci si devono adattare. Dunque, siamo andati a trovare le motivazioni di quel rapporto di causa ed effetto che conoscevamo già, ma solo in maniera empirica. Adesso, in quei vigneti è un altro lavorare, perché disponiamo di competenze diverse. In questo modo riusciamo a valorizzare ogni singola porzione di territorio e a dare un senso alle uga. Se le uga devono essere dei cru, che lo diventino davvero“.

Dopo un anno di sosta sulle fecce fini e due anni di affinamento in bottiglia, i tre vini del 2020 adesso sono in commercio. “Abbiamo voluto dargli il tempo di esprimersi” sottolinea Alessandra. I Soave del Fittà, del Tremenalto e del Castellaro sono stati imbottigliati ciascuno in duemila bottiglie, chiuse con la capsula a vite, una scelta che Suavia ha già consolidato da tempo. “Per noi il tappo a vite è diventato una fede, non abbiamo più alcun dubbio in proposito e cerchiamo di fare proseliti” dice Alessandra, e benedico per questo lei e le sue sorelle.

Il Fittà, il Tremenalto e il Castellaro del 2020 io li ho assaggiati, e poi li ho bevuti. Confermo, sono diversissimi l’uno dall’altro. Però mi sono molto piaciuti tutti e tre, perché sono tre impeccabili esempi del Soave Classico e al contempo tre perfette espressioni dell’intimo significato dei cru.

Soave Classico Fittà 2020 Suavia. Appena lo versi, dallo sbuffo sulfureo capisci che è un vino da suoli vulcanici. Un attimo dopo prorompe la garganega, con i profumi fruttati di mela renetta stramatura che provengono della sua buccia spessa, e fanno sempre pensare all’uva macerata, anche se qui macerazione non ce n’è. Acidissimo, verticale e teso, nel calice evolve in continuazione e si fa sempre più complesso. Un giovanottino che ha una vita lunghissima davanti a sé. A Fittà il suolo è tufaceo e compatto e c’è anche una buona componente d’argilla. “In famiglia l’abbiamo sempre definita una terra forte, difficile da lavorare”. La forza si intuisce dal sorso. Grande vino. (95/100)

Soave Classico Tremenalto 2020 Suavia. Sembra un bianco nordico e montanaro. Esplodono i fiori e il fruttino (l’uva spina), e poi ci sono i tratti officinali del finocchetto e del sedano. Il sorso è innervato da una freschezza vivida. Il vino è tanto giovane, forse il più giovane dei tre. Credo che possa evolvere in eleganza. “Il Tremenalto – spiega Alessandra – è una parete ripidissima esposta a ovest. Di base è calda, perché prende il sole del pomeriggio, ma c’è un sistema di vallecole orientate a nord che porta correnti d’aria. Il terreno è aranciato, i basalti originari si sono disgregati e sfaldati. Non c’è argilla e le radici delle vigne riescono ad andare molto in profondità”. (92/100)

Soave Classico Castellaro 2020 Suavia. Sorpresa! Il Castellaro è un vino immediato, gaudente e goloso. Non ha l’indole introspettiva degli altri due: lo versi e te lo godi nella sua giovialità. Ci sono la mela verde nettissima, succosa e croccante, i fiori dell’iris, la piccantezza dello zenzero; il sale è tanto, intride il sorso e fa salivare la bocca; di sotto, sottile, il rimando al vulcano, allo zolfo. “Il terreno – dice Alessandra – è soggetto a un importante processo di ossidazione, è arrossato. Inoltre, è molto sassoso, c’è tanto basalto. È il più magro dei tre, tiene meno l’acqua e ha meno ore di sole, ma è anche soggetto a meno ore di calore. Guarda a nord, verso la Lessinia”. (90/100)

Chi volesse berli, i tre “luoghi” di Suavia, sappia che sono in vendita in cofanetto da tre bottiglie, un Fittà, un Tremenalto e un Castellaro. Il costo del cofanetto è di 100 euro. Le tre bottiglie valgono la spesa. Avrete tre splendide interpretazioni territoriali del Soave Classico. Insomma, darete un senso alle unità geografiche aggiuntive.