L’anno delle salite, e non sono piacevoli

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Tendenzialmente, preferisco le salite. Quando correvo, a piedi, mi piaceva correre in salita. Anche da ragazzino, con la bicicletta dai tre cambi rudimentali, mi scatenavo in salita, ondeggiando in piedi sui pedali (e mi esaltavo per le imprese degli scalatori al Giro d’Italia e al Tour de France, mica per i velocisti). In salita avverti di più la fatica, ma quando arrivi hai il doppio di soddisfazione. Invece, come bevitore di vino, sono terrorizzato dalle attuali salite. Quelle dell’alcol, quelle dei prezzi.

I prezzi crescono tutti perché sono aumentati i costi dell’energia e delle materie prime, ma anche perché su certe zone e su certi nomi siamo in piena speculazione. Molti vini sono già diventati irraggiungibili per chi non disponga di redditi piuttosto elevati. Una volta, con qualche sacrificio, potevi permetterti, magari in società con altri, di comprare la bottiglia della vita, oggi non più, neanche facendo gruppo con altri. Lo ha sottolineato in giugno Daniele Cernilli sul suo Doctor Wine: “Ricordo bene che qualche decina di anni fa, con un reddito magari buono ma non certo da milionario, io stesso potevo acquistare molti di quei vini, magari solo una bottiglia l’anno, ma lo potevo fare. Ora sarebbe impensabile”. Si riferiva ai grandi vini francesi di Borgogna e di Bordeaux. Però ormai sono schizzate molto all’insù, qui in Italia, anche certe etichette di Barolo o di Brunello di Montalcino, e all’estero sono esplose le quotazioni di territori fin a pochi anni fa raggiungibilissimi, economicamente, pressoché da chiunque: in Mosella o nel Jura, per esempio, compravi bene senza svenarti, a una decina di euro o giù di lì, ora basta. Idem per lo Champagne: i prezzi delle cuvée che erano più accessibili sono volati in alto in media del quaranta per cento in soli due anni. Gli stipendi no. Mi domando come possa fare, oggi, un giovane a formarsi un quadro complessivo del vino, con questi prezzi. Vedo una soluzione sola: specializzarsi sui territori e sulle denominazioni ingiustamente considerati “minori”, nei quali si può bere benissimo spendendo tuttora cifre contenute. Ci sono molti esempi, validissimi, qui in Italia, in Francia e in Spagna. Bisogna leggere, informarsi, farsi guidare dalla curiosità, dallo spirito di avventura e dal piacere della scoperta. Buttando alle ortiche i pregiudizi e il culto delle etichette. Valutando il vino per quello che è e che esprime, non per il suo prezzo o per i premi delle guide.

L’altra salita che mi spaventa è quella delle gradazioni alcoliche. Ne parlavo qualche mese fa con il collega britannico Michael Garner: in molti territori, trovare vini sotto i quattordici gradi è diventato impossibile. Io stesso ho abbandonato i vini di alcune denominazioni francesi perché ormai non se ne trova più uno di sotto dai quattordici gradi. Io il vino lo bevo a tavola, a quattordici e più gradi lo sorseggi, non lo bevi. Che l’Italia sia una terra benedetta per i vini meno alcolici da bere a tavola, sta incominciando a essere sotto i riflettori. Garner ne ha scritto sull’ultimo numero di Decanter: “Siccome la crescita delle temperature fa impennare i livelli alcolici del vino e le nuove abitudini sociali spingono i consumatori a bere di meno, è il momento perfetto per abbracciare uno dei più memorabili ma trascurati stili di vino: i rossi leggeri“, e tra questi rossi leggeri ha ricordato ad esempio il Grignolino, il Marzemino, il Nerello Mascalese, il “mio” Bardolino, i Sangiovese “minori”, la Schiava. In tema di alcol e bevibilità, cito poi un recentissimo pezzo di Fabio Rizzari su L’AcquaBuona dedicato a due vini che ha bevuto sotto le feste, un Savigny-Les-Beaune e un Barbaresco: “L’intera forma che assumevano i due vini al palato – scrive – era quindi del tutto differente. E non nel senso, ovvio, delle macrodifferenze territoriali, ampelografiche, storiche, eccetera. Un Savigny-Les-Beaune è un Savigny-Les-Beaune, un Barbaresco è un Barbaresco, guarda un po’. Ma nel senso della presenza di un involucro bruciante, nel caso italico, assente invece nel rosso borgognone. Si dirà: i grandi rossi langaroli sono sempre molto alcolici. Vero. C’è però un di più. Un di più che cambia il quadro generale. Una frazione di alcol in eccesso che squilibra e deforma l’intera immagine sensoriale del vino”. Ecco perché quando cerco vini sui siti di ecommerce, la prima cosa che guardo, adesso, è la gradazione alcolica. L’alcol cresce perché c’è il cambiamento climatico che fa stramaturare l’uva. L’uva stramatura anche perché a partire dagli anni Novanta siamo tutti impazziti a cercare le densità degli impianti e le forme più “moderne” – leggasi “bordolesi” – di allevamento della vite. Erano i dogmi: tanti ceppi, filari stretti, poca uva per ceppo. Un abbaglio, alla lunga. Tornare indietro, adesso, è difficile. Chi ci prova, avendo quel genere di impianto, produce spesso vini banali, dai tannini verdi, immaturi, e dalle acidità brucianti e irrisolte. Qualcuno raccoglie precocemente e cerca le scappatoie del rosé zuccheroso o del rifermentato in bottiglia, che se non è di tradizione appiattisce tutto. Scorciatoie che non portano a niente. Per il bevitore, la soluzione possibile è quella che ho detto di sopra: cercare in quegli angoli del mondo vitivinicolo dove per clima, suolo e tradizione si producano da sempre vini che mirano alla bevibilità prima che alla concentrazione. Sono quei vini messi a lungo nell’angolo a causa dell’infatuazione per il vinone: sono talmente tradizionali che sono diventati moderni. Come trovarli? Mi ripeto, mi tocca: leggere, informarsi, farsi guidare dalla curiosità, dallo spirito di avventura e dal piacere della scoperta, buttando alle ortiche i pregiudizi e il culto delle etichette.

Con il metodo che ho indicato, avvertirai di più la fatica, ma poi la soddisfazione sarà doppia, addirittura tripla. Avrai risparmiato, avrai bevuto molto bene, avrai accresciuto la tua cultura del vino di là dalla palizzate dei luoghi comuni.