La bicicletta Bianchi, ovviamente in classicissima tinta celeste, ha il cartellino con il numero 1141. Sta appoggiata al bancone che chiude, sul fondo, la sala d’ingresso della sede operativa della Ricasoli, poco sotto il Castello di Brolio, nel comune di Gaiole in Chianti. Vuole la leggenda – perché anche ai nostri giorni fioriscono leggende – che Francesco Ricasoli se la sia aggiudicata a suon di rilanci a un’asta benefica, strappandola a un celebre direttore di giornale.
A dire il vero, è qualcosa di più di una leggenda, perché la fonte è attendibile, trattandosi del mio amico Livio Iacovella, che si occupa dell’ufficio stampa dell’Eroica, il clamoroso e bellissimo raduno che porta centinaia di cicloamatori di tutto il mondo sulle strade bianche chiantigiane. Il piazzale di fronte alla Ricasoli è punto di ritrovo e lo schietto Agribar Brolio, che vi si affaccia, è colmo di memorabilia. “Francesco Ricasoli non avrebbe mai permesso che quella bici uscisse dal Chianti. L’ha pagata uno sproposito” mi confida Livio e gli credo.
Gli credo per due motivi. Il primo è che di Livio mi fido, l’altro è che ho conosciuto Francesco Ricasoli e ho verificato di persona la sua riflessiva ferocia nell’attaccamento al territorio e alla cultura del Chianti Classico. Lo potrei raccogliere dentro a una sola parola, quel suo intimo legame. Si chiama responsabilità.
Penso che si stato il senso di responsabilità a fargli intraprendere l’impresa della vita, ossia mollare tutto per dedicarsi al recupero della sterminata tenuta agricola di famiglia, per riportarla passo dopo passo, con prudente urgenza, agli antichi fasti vinicoli. Perché quando ti chiami Ricasoli e appartieni a una famiglia di cui si conosce la storia fin dall’ottavo secolo, e hai un castello citato nei documenti di novecento anni fa, e hai un mare verde di milleduecento ettari fra boschi, olivi e vigne, e fai vino dal 1141, una responsabilità bella grossa ce l’hai. A quel punto hai due scelte: scappare o tirartela in spalla. Francesco Ricasoli se l’è caricata in spalla. Non so se al posto suo ne sarei stato capace. Dubito, anche se sono uno che le proprie responsabilità se le prende. Troppo gravosa, questa.
Ma vuoi mettere, poi, l’altra responsabilità di discendere da quel barone Bettino Ricasoli, secondo presidente del Consiglio del Regno d’Italia dopo il conte di Cavour, che dettò la prima, originaria “ricetta” del vino chiantigiano, e insomma “la giusta mescolanza”, l’uvaggio, la cuvée? E l’aver prodotto per anni e anni e anni dei Chianti Classico che hanno fatto la storia del territorio?
A cena, all’Osteria di Brolio (destinazione ristorativa che consiglio a chi sia in viaggio da quelle parti), con Francesco Ricasoli si parlava proprio delle vendemmie andate. Gli dicevo della passionaccia che da qualche tempo mi è presa per i rossi del 1949 e del 1962, due annate “fresche”, che diedero vini acidissimi, a tutt’oggi però brillantissimi per quella loro tensione che si è placata solo il necessario per lasciar trasparire l’eleganza terragna, a tratti perfino un po’ da foglia di tè verde. La mattina seguente, lui si è presentato con un Chianti Classico Brolio Riserva del 1949 e uno del 1962. Quali altre aziende in Italia hanno una tale profondità di annate in cantina da poter tranquillamente esibire due vini del genere? In Francia ti succede, a Bordeaux. Qui da noi poco. Ammettiamolo, anche questo incrementa la responsabilità che ti lega al territorio.
Le bottiglie le abbiamo stappate. Purtroppo il tappo della ’49 non era in grande forma. Secco e muffito, aveva ceduto i sentori al vino, che tuttavia possedeva, sottese e accennate, le eredità di quel tannino che dicevo e mostrava comunque gli ultimi singulti dell’indole terragna chiantigiana. Ma la ’62 – oh, la 62! – era grazia floreale e fascinazione salina, così come ricordo i migliori ’62 che ho bevuto. Perfino il colore restava brillante, e il calice, man mano che il vino vi si apriva, sprigionava memorie nitide di spezie fini e delicatissime e di frutti rossi accesi. Persisteva, il sorso, rustico e vitale, come se volesse riprendere le fila di un dicorso solo brevemente sopito, a rivendicare una gioventù rimasta appena dietro l’angolo. Ma mano, ecco affiorare l’uva, e il suo scrocchiare sotto ai denti. Da commuovercisi.
È stato un triplo salto carpiato con avvitamento l’aver stappato, immediatamente dopo, il Chianti Classico Brolio Riserva dell’annata in commercio, la 2020 (ed è un’annata superba, a mio avviso, felice per chi ami i lunghi affinamenti). Austero come un vecchio contadino che ti accolga davanti al focolare fumoso della sua cucina, compatto come la terra arida prima che venga dissodata dalla zappa, ha in primo piano quella terrosità che cerco e che voglio in un rosso chiantigiano. Si beve certamente adesso (e infatti l’ho bevuto a tavola), ma prospetta, anche, un’evoluzione paziente, e insomma dà soddisfazioni oggi e le darà nel futuro. Beato chi lo beve nell’immediato e beatissimo chi lo potrà bere di nuovo quando avrà l’età dei due che ho detto, non foss’altro perché l’anagrafe di questi bevitori è certamente, ora, più propizia della mia.
Poi, ho avuto nel calice i vini del 2020 usciti come Gran Selezione. Ne parlerò più avanti in un altro pezzo, perché ci voglio far su una mia riflessione. Ci voglio riflettere perché la Gran Selezione sta proiettando il Chianti Classico nel cielo olimpico dei fine wine, e i cru del Barone Ricasoli ne sono un segnale eloquente.
A presto, dunque.