Zanichelli, il Mosnel e il senso dell’attesa

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Massimo Zanichelli ha l’indole del documentarista. Esercita questa sua propensione nelle cose che scrive – e i suoi recenti libri enciclopedici sui vini frizzanti, sui vini dolci e sui vini di montagna italiani ne sono una prova palese -, e nelle cose che filma – e il suo cortometraggio, questo recentissimo, sulle vicende umane e viticole del Mosnel di Franciacorta ne rappresentano una conferma ulteriore. Tuttavia, il suo documentare per testi e per immagini esce fuori dagli schematismi della sequenza di memorie e si fa invece racconto personale, tramite il quale trasmette all’utente – lettore o spettatore che sia – una visione del vino che è fatta di terra, di paesaggi, di persone e di attese.

Mi sento di dire che è proprio il senso dell’attesa a far da filo conduttore allo scorrere delle immagini del documentario sul Mosnel, e sotto questa chiave invito a prenderne visione. L’attesa, infatti, è giocoforza inscritta nella prospettiva di chi fa vino, perché sono i tempi lunghi della vigna, delle stagioni e della cantina a dettarne i ritmi, e questo traspare, in filigrana, nello scorrere delle sequenze filmiche, contrappuntate dal formarsi e dal dissolversi delle nuvole; l’attesa è soprattutto nell’imprinting di chi faccia metodo classico, che chiede tempi lunghi e pazienti, sottolineati dal silenzio (ci sono più musiche e rumori di fondo, che non parole, nel documentario), e al Mosnel diventano talora lunghisssimi, per via di certe sboccature tardive da ascriversi, per me, tra i vertici assoluti della spumantistica italiana.

Ho avuto la fortuna di poter assistere alla proiezioni del film, subito dopo il tramonto di una serata finalmente tiepida, nello slargo di prato rispettosamente lasciato tra le vigne proprio davanti al tumulo di pietre – quasi un sacrario sormontato da alberi che si fanno via via più possenti – da cui prende nome l’azienda di Lucia e di Giulio Barzanò, giacché è tipico della Franciacorta, quando si dissodano i campi, ammassare in cumuli detti mosnèi quel pietrame che venne disperso nel limo dai fiumi e dai ghiacciai nelle epoche remote che formarono il territorio. Sinora, nelle mie visite alla cantina, non avevo mai colto la geometrica essenza di quella piramide pietrosa e del praticello che vi prende slancio; sono state le immagini aree a darmene la percezione, e in essa – e anche nelle testimonianze di struggente intimità familiare contenute nel film -, ho riconosciuto come Giulio e Lucia diano seguito agli intenti della madre Emanuela Barboglio non solo nell’averne portata la produzione all’eccellenza, ma anche nel perseverare in quel senso, altrove raro, di mecenatismo proattivo, che motivò la mamma a rinunciare a una cospicua fonte di introiti per consentire di formulare il disciplinare franciacortino così come oggi lo conosciamo e loro a investire in opere che ad altri, troppo presi dalla frenesia cieca del guadagno, parrebbero inutili, come la conservazione del giardino secolare dietro casa o, appunto, il privarsi di un pezzo di vigna per lasciarvi allargare un prato o il produrre un documentario.

Del film Mosnel di Franciacorta esistoni due versioni, entrambe destinate alla distribuzione on line; la più lunga è già disponibile dal 10 giugno, la più breve sarà fruibile dal 10 luglio. Della prima accludo il link qui di sotto.