Il vino va spiegato con i perché

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La regola del buon giornalismo – ma anche della buona comunicazione, in qualunque ambito questa venga sviluppata – è che un articolo ben fatto deve contenere la risposta a cinque domande che incominciano tutte con la vu doppia, ossia who, what, when, where, why? (Insomma, chi, cosa, quando, dove e perché.) Nel mondo del vino, da parte soprattutto dei produttori, ma anche di chi ne scrive, spesso viene sostituita la risposta alla domanda why con la risposta alla domanda, mai posta, how, e dunque invece del “perché” delle scelte si spiega il “come” si sia agito, anche quando nessuno l’abbia chiesto. Il perché rimane nascosto, e invece è proprio il perché la cosa che sarebbe più interessante da narrare.

Questo ragionamento, che condivido totalmente, l’ha enunciato il critico, stratega e produttore britannico Robert Joseph nell’intervento che ha preceduto la cerimonia di premiazione dei Wine Travel Awards, alla London Wine Fair di Londra. “Il perché è il grande assente del vino“, ha sottolineato, e ha perfettamente ragione.

“Qual è la ragione che sta dietro alla tua scelta di fare vino e di fare quello specifico vino?” È questa la domanda cui ogni produttore di vino dovrebbe rispondere, anche senza che gli venga posta. Il problema è che molti vignaioli non sono in grado di rispondere neppure se la domanda gliela poni, perché non si sono mai soffermati a pensarci, a rifletterci, non hanno mai interrogato il proprio cuore. Si avvitano quasi sempre sul “come”. Entrano nei dettagli tecnici, non esprimono la loro intima convinzione.

Ho fatto un esperimento a uno dei tanti eventi del vino. Ho domandato a sei diversi produttori il perché della loro scelta di fare vino, e di fare vino in un certo modo e in un certo territorio: cinque mi hanno dato risposte tecniche, spiegandomi dei suoli, del clima, dei vitigni; uno solo mi ha detto “perché era una promessa che avevo fatto a mio padre”. Uno solo, dunque, mi ha dato un perché. Solo la sua risposta è stata capace di suscitare interesse, attenzione, empatia, scambio, reciprocità. Gli altri cinque devono fare ancora molta strada.

Il cammino incomincia interrogando se stessi. Domandandosi ogni volta perchè, e il perché sta nel cuore, non sta dentro ai numeri e ai conti economici. Che poi, non è “tempo perso”, non è “far filosofia”: è fare impresa. “Everything we do is marketing”, tutto quel che facciamo è marketing, ha detto Robert Joseph. Essere se stessi, illustrare i propri perché – ed essere onesti nel farlo – è un’ottima forma di marketing.