Il vino italiano è una commodity

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Con un editoriale molto circostanziato, che vi invito a leggere e che si contraddistingue per la pacatezza di scrittura e la consequenzialità di argomentazioni che gli è solita, il mio conterraneo e collega veronese Fabio Piccoli, al quale ricambio la stima che mi esprime, si è detto in disaccordo con l’articolo nel quale affermavo che l’attuale crisi del vino italiano sia figlia in primis della crisi economica e sociale nella quale siamo invischiati. Nella sostanza della sua analisi, Fabio sostiene che “se diamo tutta la colpa alla scarsa capacità di spesa faremo solo un regalo a coloro che da tempo spingono che anche il vino si trasformi in una banale commodities”, giacché, dice ancora, e con ragione, “la maggioranza dei prodotti agricoli è in quella triste condizione di merce indifferenziata, il vino per tanto tempo è stato un esempio da imitare, speriamo rimanga tale”.

Ritengo queste note meritevoli di approfondimento, e con dichiarato spirito provocatorio, che si evince già dal titolo di questo pezzo, obietto che non è possibile che il vino italiano si trasformi in una commodity per il semplice fatto che, in qualche modo, lo è già diventato, quanto meno in parte significativa.

Il sito di Borsa Italiana definisce come commodity “quella particolare categoria di beni che viene scambiata sul mercato senza differenze qualitative”, e sottolinea che “si tratta più nello specifico di beni cosiddetti fungibili, che sono quindi sostituibili nella soddisfazione del bisogno cui sono collegati, indipendentemente da chi li produce”. Ora, ditemi che cos’è il Prosecco se non una grande commodity del vino con le bollicine: chi mai si interroga su quale sia il produttore del Prosecco quando ne chiede un bicchiere al bar? Credo veramente pochi.

So che l’affermazione non piacerà ai miei corregionali prosecchisti, ma mi pare consolidato che tra un Prosecco e l’altro non via sia, da parte di larga parte dei consumatori, una sostanziale percezione di differenza qualitativa (il che è miracoloso, ed è anzi, a mio parere, parte essenziale del successo planetario del Prosecco), e che dunque tutto il Prosecco – come brand in sé – soddisfi nella sostanza il bisogno di aperitivo del consumatore, “indipendentemente da chi lo produce”. Addirittura, molti chiamano Prosecco qualunque altro vino italiano con le bolle.

Si dirà che il Prosecco non è tutto il vino italiano. Vero, ma è poco lontano dall’esserlo, tanto più che se, oltre al Prosecco, consideriamo il Pinot Grigio delle Venezie, arriviamo intorno al 40% del vino italiano a denominazione di origine: in tutto, le tre denominazioni del Prosecco e quella del Pinot Grigio totalizzano quasi un miliardo di bottiglie.

Quando nacque la grande doc del Prosecco (il 2009) e poi quando si aggiunse quella del Pinot Grigio (2017) lo dissi in tutte le salse che nulla sarebbe più stato come prima, per il vino italiano. Infatti, il Nord Est ha assunto un ruolo nodale nel settore, di fatto determinando – salvo rare eccezioni – il destino della produzione vinicola nazionale, giacché le fortune o le difficoltà eventuali dei due colossi varietali si ripercuotono inesorabilmente sul prezzo della gran parte del vino del nostro paese: un denegato – e sciagurato – insuccesso nella collocazione di grosse quantità dell’una o dell’altra denominazione, o di entrambe, comporterebbe il crollo verticale dei prezzi dei vini a igt e dei vini generici, con il tracollo, a catena, di buona parte della viticoltura italiana. Sarebbe interessante che un qualche centro di ricerca provasse a verificare quale correlazione intercorra – se intercorre – tra le variazioni di tendenza mensile o almeno trimestrale dell’imbottigliato del Prosecco e del Pinot Grigio e la quotazione del cosiddetto “bianco tavola”, ossia il “vino bianco” privo di menzione geografica. Sono empiricamente convinto che una correlazione esista; conoscerla su basi scientifiche potrebbe apportare beneficio all’intero settore. Comunque, se fossi un produttore italiano di vino, farei il tifo per dei successi durevoli del Prosecco e del Pinot Grigio, ancorché questi, nei fatti, segnino il benchmark di prezzo all’ingrosso per la gran quantità delle bollicine e dei vini bianchi prodotti qui da noi, stante che i buyer internazionali confrontano le quotazioni di amplissima parte degli altri vini italiani con quelle del Prosecco (se il vino ha le bollicine) o del Pinot Grigio (se il vino è un bianco “fermo”). Ne consegue che quasi nessuno può chiamarsi fuori.

Credo che qualunque valutazione sulla realtà attuale e prospettica del vino italiano debba necessariamente tenere conto di una simile strutturale variazione del contesto competitivo domestico. Ergo, non ritengo di accogliere l’obiezione di Fabio Piccoli circa il fatto che se attribuiamo l’attuale difficoltà del settore vinicolo in prevalenza alla crisi economica e sociale, l’esito sarebbe quello di trasformare il vino italiano in commodity, poiché questo è già in parte accaduto, indipendentemente dai trend socio-economici.

Dunque non vi è speranza di invertire la tendenza? Certo che c’è la speranza, ma perché si concretizzi occorrono davvero quei “cambiamenti strutturali e strategici che il nostro sistema vitivinicolo fatica ad accettare” cui fa riferimento Fabio Piccoli, con una sottolineatura che, in questo caso, condivido appieno. Non solo. Dico che questi cambiamenti è necessario che siano messi in campo a prescindere dall’auspicata ripresa economica. Addirittura, se le tendenze macroeconomiche avessero a invertirsi, sarebbe ancora più urgente investire in un radicale ripensamento del mondo del vino italiano, poiché una nuova crisi potrebbe, quella sì, rivelarsi letale, e le crisi, si sa, sono cicliche.

Peraltro, ribadisco che quanto ho scritto ha, già dal titolo, uno mero spirito provocatorio.