Il vino, il credito e la formazione

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Una decina di giorni fa, da un articolo del giornalista economico Francesco Ninfole pubblicato sul quotidiano Milano Finanza ho appreso che il 2023 è stato un anno record per gli utili della banche italiane, tant’è che i primi cinque gruppi bancari nazionali hanno registrato, insieme, più di 21 miliardi di profitti, con un balzo in avanti del 77% rispetto all’anno prima. Sempre una decina di giorni fa, durante una tavola rotonda organizzata nell’ambito dell’Italian Taste Summit svoltosi alla Villa Reale di Monza, l’economista Davide Gaeta, docente presso l’Università di Verona e produttore di vino in Valpolicella, sottolineava come sia difficile l’accesso al credito da parte delle aziende agricole, che di fronte alle banche “sono totalmente indifese”. In quegli stessi giorni, i trattori degli agricoltori occupavano strade e piazze d’Italia, e tra i motivi della protesta c’erano anche le difficoltà di accesso al credito da parte delle imprese agricole.

Le evidenze contenute nella prima notizia stridono con la situazione rappresentata dal professore universitario e dagli agricoltori in rivolta. Si continua a dire che l’agricoltura italiana, e il vino in particolare, sia tra i simboli del made in Italy, e poi ci si trova in affanno nel rapportare le aziende agricole con il sistema bancario. Un simbolo ha bisogno di essere valorizzato, anche tramite il credito. Soprattutto, continuo a domandarmi perché chi rappresenta il mondo agricolo non metta in elaborazione, di concerto con le banche – e a loro volta le banche, di concerto con il settore agricolo -, dei nuovi strumenti finanziari, capaci di attrarre, con opportune garanzie, sia gli investitori istituzionali, sia le famiglie italiane, che sui conti correnti hanno più di dieci miliardi di liquidità. La situazione florida del mondo bancario potrebbe consentirlo. Per esempio, si potrebbero cartolarizzare gli ingenti crediti vantati dagli agricoltori per le quote di cofinanziamento pubblico dei loro interventi infrastruttorali o promozionali. Io un bond della filiera del Parmigiano Reggiano o del Prosecco lo comprerei. Di certo, per ideare operazioni del genere serve una cultura finanziaria che il mondo agricolo non ha. Dunque, occorre formazione.

Joanna Miro, anima e motore dell’Italian Taste Summit, che mette i contatto diretto aziende del vino e compratori esteri, insiste nel sostenere che nel mondo del vino occorre un approccio human to human, e la capacità di elaborare cultura e di trasmetterla agli altri fa parte della socialità umana, del rapporto tra un’umanità e un’altra. Ha ragione, e bene fa a pensare di allestire uno spazio formativo, così come a creare occasioni di confronto, quale la tavola rotonda cui ho accennato. Nella sua relazione, il professor Gaeta è stato impietoso. “Se un imprenditore agricolo vuole aggiornarsi su una norma ha pochissime offerte. Ciò che manca completamente è l’alta formazione, quella manageriale”, ha affermato. È facendo cultura d’impresa che il mondo del vino può fronteggiare le nuove sfide, che non sono solo quelle, già di per sé gigantesche, del mutamento climatico e del cambio dei gusti dei consumatori, ma anche quelle relative alla finanza, ai trend dei tassi di interesse, alle dinamiche dei costi delle materie prime, a un controllo sfuggente dei centri di costo. “Il costo, ormai, non è più sotto controllo“, ha sottolineato, e temo abbia ragione. Ma un’impresa non può sopravvivere se non detiene queste leve di controllo. Non sono giorni facili, per chi fa impresa agricola. Temo che serva soprattutto un salto di mentalità. Come dire, un’evoluzione della specie.