Vinitaly non sarà mai una fiera uguale alle altre

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Apro il dizionario on line del Corriere della Sera (è il Sabatini Coletti) e cerco la voce “sconcerto“: il significato attribuito è quello di “disorientamento, sbalordimento”. Se ieri, nella giornata iniziale di Vinitaly, fossi stato un operatore estero alla sua prima esperienza alla fiera veronese dopo aver partecipato nelle settimane scorse a WineParis e al ProWein, probabilmente sarei stato sconcertato, disorientato, sbalordito. Infatti, al posto dei corridori ampi e semivuoti di Parigi e Düsseldorf, mi sarei trovato a muovermi in un bagno di folla, con alcune aree pressoché inavvicinabili da tanta gente vi si assiepava (per esempio, la zona dei produttori altoatesini). La diversità del Vinitaly rispetto alle due fiere internazionali ieri è balzata agli occhi come non mai e così pure – lasciate che lo dica – è stata evidentissima la sua profonda italianità, con la presenza massiccia di quelli che all’estero chiamano winelover e che io chiamo per nulla spregiativamente bevitori (infatti, il bevitore non è uno sbevaccione, e anzi spesso è anche un bevitore – come dire – professionale, in quanto cameriere, aiuto barista, studente di sommelerie o quant’altro appartenga a quella parte di filiera che può fare da trait d’union attuale o futura con il cliente finale), con un afflusso credo mai così alto di giovani e le insistite passerelle dei politici (con i relativi codazzi a ingombrare i corridoi e i viali esterni).

D’accordo, chi espone a Vinitaly sa benissimo che il primo giorno di fiera – la domenica – costituisce un tributo alla dimensione popolare del vino. Del resto, è la stessa Veronafiere che sul sito della rassegna spiega che “se sei un sommelier per passione o lavori per un’azienda vitivinicola che non espone a Vinitaly le giornate di visita a te dedicate sono domenica 2 aprile e mercoledì 5 aprile 2023”. Ma ieri si è avuta la dimostrazione plastica che il Vinitaly non potrà mai ambire davvero ad essere una fiera esclusivamente per operatori come lo sono quelle di Düsseldorf e di Parigi, e che forse non è neanche il caso che snaturi per forza la propria identità. Almeno per un giorno, o forse solo per un giorno.

Un bene o un male? Dipende dai punti di vista. Chi, fra i produttori, interpreta le fiere come il momento d’incontro privilegiato ed esclusivo con i buyer, sarà scontento, e infatti quest’anno – ma anche gli anni scorsi, a dire il vero – ci sono state defezioni di un certo rilievo. Chi invece ritiene che occorra una vetrina del vino italiano che metta insieme la dimensione business con quella retail non rinuncerà mai ad esserci, e infatti gli espositori sono quattromila. Non solo. Io ritengo che una prova indiretta del successo al momento inscalfito del Vinitaly sia dato da due fattori esterni alla fiera e alla sua volontà.

Il primo fattore è l’esplosione di manifestazioni collaterali, in genere afferenti alla variegata galassia del vino naturale. Non sono mai stati così tante come quest’anno, e tutte hanno avuto visibilità. Se il Vinitaly non fosse un qualche cosa di unico ed estremamente attrattivo, è chiaro che quegli eventi non avrebbero modo di esistere. Dunque, nei fatti, per l’appassionato e per il buyer italiano ed estero, quegli eventi sono ormai visti come qualche cosa di complementare alla fiera, da mettere in agenda tra una presenza e l’altra nei padiglioni veronesi. Vinitaly è la ragione unica della loro esistenza, e la loro esistenza rafforza indirettamente il ruolo nodale di Vinitaly.

Il secondo fattore è quello che chiamo l’effetto Nanni Moretti, ossia il “mi si nota di più se vengo e me ne sto in disparte o se non vengo per niente?” del film Ecce Bombo. Perché mai come quest’anno ho visto comparire nella mia casella di posta elettronica e sulle mie bacheche dei social media le dichiarazioni di cantine o di organizzazioni del vino che annunciavano che non avrebbero partecipato a Vinitaly. Non so se gli autori di tali annunci se ne rendano conto, ma se avverti l’urgenza di dichiarare che non vai a un evento, vuol dire che quell’evento è estremamente visibile, e nei fatti annunciare che non ci vai significa rafforzarne la reputazionalità. Uguale a chi annuncia che non vedrà il Festival di Sanremo. La logica vorrebbe che chi ritiene ininfluente Vinitaly o Sanremo non ne parli proprio per nulla. Invece comunque se ne parla, e dunque Vinitaly e Sanremo sono influenti.

A questo punto, però, mi viene un dubbio, e trattandosi di un dubbio, lo rappresento con un interrogativo cui non so rispondere. Lo pongo in forma di quesito leggermente trivialotto: non è che il vino italiano se la sta tirando un po’ troppo? È vero, alcuni brand e perfino alcune (poche) denominazioni hanno assunto una dimensione talmente internazionale da non aver più bisogno del mercato italiano. Ma se continuiamo a dire, a parole e con i fatti, che il mercato italiano è poco interessante per il vino italiano, non è che finiremo a convincere sempre di più gli italiani che non vale la pena bere vino? Questo, a sua volta, si traduce in un ulteriore, ultimo, interrogativo: siamo sicuri che rinunciare a una festa del vino italiano non porti con sé il rischio del tramonto d’interesse per il vino italiano? Il rischio è gigantesco, perché non puoi essere profeta all’estero se non lo sei già in patria.

Questo senza nulla togliere al fatto che le aziende che spendono quattrini per partecipare a una fiera hanno il sacrosanto diritto, e io dico anche il dovere assoluto, di far rendere il proprio investimento, e che dunque la dimensione business di una fiera del vino sia fondamentale. Ma non dimentichiamoci che il business del vino lo si fa anche con i retailer: enotecari, ristoratori, baristi, albergatori, sommelier, maitre, camerieri e i loro vari collaboratori, tanta gente che a volte non ha alcun potere decisionale negli acquisti della propria azienda, ma che comunque con il proprio lavoro vende direttamente vino agli italiani e ai milioni di turisti che vengono in vacanza in Italia e che sono il primo e più diretto punto di congiunzione fra il produttore e il bevitore. Veronafiere li considera (quasi) tutti operatori, e invece non li considerano tali tutti i produttori, quando sostengono che in fiera si va solo per incontrare i buyer, e magari solo quelli esteri, perché tanto hai la tua rete Italia ed è quella che deve tenere i contatti con i retailer. Trascurare questa componente del business per ricercare solo il contatto con il grande buyer mi sembra poco produttivo. Relegarla in un limbo a metà strada tra il bevitore e l’operatore lo è ancora di più.