Tracce di rosa parte #3

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Va dato atto al Corriere Vinicolo diretto da Giulio Somma di essere stato, in quest’ultima manciata d’anni, con una lunga serie di approfondimenti di natura tecnica e concettuale, il maggior tavolo di riflessione sul tema dei vini rosa italiani, che tuttavia non si sono mai realmente affermati e anzi sembrano mostrare il fiato corto, soprattutto adesso che è finito quello che il settimanale, nel numero uscito il 24 giugno, chiama “effetto novità” e dunque – i virgolettati sono di Somma – occorrerebbe entrare nella “stagione della maturità”, quella nella quale “i proclami devono far posto ai progetti, gli slogan ai fatti, e le avventure a percorsi rigorosi in vigna e cantina“. (Sottolineo, “in vigna e cantina”, dunque prima la vigna.)

Sul medesimo numero del periodico dell’Unione Italiana Vini, il collega Fabio Ciarla, che del contesto produttivo nazionale del vino in rosa è stato ed è attento osservatore, si chiede che cosa manchi ai rosati italiani per decollare, e si dà una risposta, che riporto: “Probabilmente la fiducia, un vero movimento che si specializzi nella produzione di vini rosa, credendoci e investendo nella tipologia, senza considerarla come secondaria o, addirittura, come etichetta utile a completare la gamma”.

Sono d’accordo, neanch’io ravvedo l’essere maturato, nel minuscolo e provinciale contesto rosatista italiano, un senso di fiducia tale da mettere l’orgoglio del vino rosa in primo piano, tant’è che sono davvero pochissime le aziende che lo presentino come il vino di punta della loro produzione, mentre sono tantissime quelle che ci si sono buttate a pesce per inseguire, in maniera effimera, il successo organizzatissimo dei provenzali, generando sì qualche modesto – ma non duraturo – fatturato aggiuntivo tramite un vino che fa da completamento di gamma, ma inducendo nel bevitore e nell’operatore una confusione ancora maggiore di quella preesistente. Di fatto, in tal modo involontariamente negando la storicità del rosa italiano, sepolta sotto un profluvio di etichette neonate, fatte, talora, con uve inadatte o di risulta, in territori privi di tradizione. Insomma, nell’assieme abbiamo dato l’idea che in Italia non esista una specializzazione rosatista consolidata nel tempo, mentre è vero che ha radici storiche, oltretutto ben più differenziate che in Francia (abbiamo tradizioni greche e romane antiche, e altre del tutto locali, ma storicissime) e che bere rosa sia pertanto una questione di moda, votata a rispondere a un’ipotetica e anzi infondata domanda femminile (vivaddìo, le donne bevono quel che vogliono, e bevono molto bene) e a un futuribile, ma per nulla assodato, interesse giovanile. Se il vino lo ghettizzi, muore, e infatti il rosa italiano boccheggia. Tuttora, nelle carte dei ristoranti la sezione rosa, quando c’è, è striminzita, e trovare un rosato alla mescita nelle osterie italiane rassomiglia grosso modo a sperare in una vincita al lotto.

L’Italia non è orgogliosa dei propri vini rosa, spesse volte neppure nei territori dove lo si produce, tant’è che, fatte salve un paio di eccezioni, le denominazioni di origine rosatiste italiane si fermano a poche centinaia di migliaia di bottiglie, o tutt’al più a un paio di milioni di pezzi malcontati. Con l’ottimismo che lo contraddistingue, nel proprio editoriale Giulio Somma afferma che “se i numeri non hanno seguito i trend attesi, oggi, i rosati hanno conquistato una considerazione completamente diversa da parte dei consumatori e una consapevolezza nuova anche tra i produttori”. Temo di non poter esprimere il medesimo ottimismo, poichè, nel mentre da parte di alcuni pionieri della rinascita rosa dell’Italia si stanno finalmente facendo vini del tutto territoriali, di valore molto alto, questi non sono abbastanza noti al pubblico, che seguita a restare confuso.

Peraltro, concordo con Somma nell’opinione che sarebbe davvero il tempo della riprogettazione e che – lo cito – “bisogna ripartire, con strategie produttive serie che ripartono dal vigneto per approdare a stili di prodotto coerenti con le identità territoriali e in grado di valorizzare vitigni e tradizioni, ma senza chiudersi alle innovazioni”. Il fronte, peraltro, mi pare sfaldato, se mai fronte davvero c’è stato, e dunque concludo con le stesse parole del direttore del Corriere Vinicolo: “è lì la debolezza: e se non ci credono i produttori…