A ogni territorio il suo rosé col suo colore

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In chi mi conosce di più, ha destato una qualche sorpresa che su questo mio The Internet Gourmet io abbia pubblicato un pezzo in cui Mario Plazio se le prendeva con i rosé che somigliano a dei vini bianchi. Perché è abbastanza noto che ho spinto moltissimo in questi ultimi anni affinché il Chiaretto del “mio” lago di Garda schiarisse di molto la propria tonalità di rosa.

Il fatto è che sono d’accordo con quel che dice Mario Plazio. Ossia che “come moda richiede, ormai il rosé è prodotto al solo scopo di soddisfare la vista”. Nel senso che reputo assurdo produrre dei rosé chiari “solo” per soddisfare la vista. Sottolineo, “solo”.

Io credo da sempre che il rosé debba essere prima di tutto un vino identitario e che non si possa produrre rosé identitario in qualunque zona e con qualunque uva. Insomma, il rosé dev’essere un vino di territorio e deve trattarsi di un territorio che ha la vocazione per il rosato e tra tra gli elementi identitari di un rosé di territorio c’è il colore, che è il primo segnale della sua appartenenza territoriale, ma non l’unico.

Prendiamo le tre grandi aree rosatiste italiane, l’Abruzzo col suo Cerasuolo, il Salento col suo Rosato e il lago di Garda col suo Chiaretto. Avere un unico colore per i rosé di queste tre zone è impensabile e assurdo. Perché il colore è identitario delle uve e dei territori e se si rispetta il colore delle uve si rispettano anche i loro profumi.

Il termine Cerasuolo significa “di colore rosso ciliegia”. Che in Abruzzo con l’uva di montepulciano si faccia un rosé dal colore rosso ciliegia mi pare totalmente logico e trovo invece illogico che si punti al colore del fiore di pesca o addirittura a tonalità più scariche. Non solo. Da un Cerasuolo non chiedo esclusivamente il colore del montepulciano, che chiaro evidentemente non è, ma anche il suo frutto carnoso.

Nel Salento il Rosato lo si fa con l’uva del negroamaro. Il nome stesso del negroamaro sottolinea la colorazione scura dell’acino, nera. Mi aspetto dunque che in un Rosato del Salento il primo tono identitario sia quello del negroamaro e dunque un rosa caldo, abbastanza intenso, meridionale, che tende al corallo e che mi ricorda anche la terra rossa arsa dal sole e la spezie orientali che mi aspetto di ritrovare nei vini a base di negroamaro.

Sul lago di Garda, sia in riva veronese, sia in costa lombarda, si fa il Chiaretto. La parola Chiaretto viene da “chiaro” e dunque è fuori dalla logica che ci sia un Chiaretto che non è chiaro. Le due uve autoctone del Chiaretto, la corvina per i veronesi e il groppello per i bresciani, sono in effetti povere di sostanze coloranti e dunque offrono naturalmente vini scarichi di colore. Entrambe tendono al profumo della fragole e del lampone.

A ogni zona “vocata” il proprio rosé, fatto con le uve “da rosé”, nel rispetto della colorazione naturale delle uve del territorio e dei profumi che quelle uve, a contatto con quel territorio, naturalmente offrono. Se invece si pensa che un rosé sia “solo” colore, allora non ci siamo.