Il fraintendimento delle bollicine dosate

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Incontro abbastanza spesso gente che mi dice di preferire gli spumanti non dosati o pochissimo dosati – i pas dosé, i nature, gli extra brut – perché sarebbero quelli che rappresentano meglio l’identità dei singoli territori spumantistici. Ugualmente, accade di sentire qualche produttore di bollicine affermare che siccome le uve delle sue vigne sono particolarmente buone, il dosaggio non serve. Di solito non replico, perché ognuno è libero di preferire i vini che vuole e di fare e bere i vini che preferisce, ma credo che il genere di affermazioni sul dosaggio cui ho accennato poggino su un grosso (e talora grossolano) fraintendimento. Il dosaggio, infatti, non serve a “correggere” vini cattivi, perché un vino cattivo resta tale qualunque artificio gli si applichi. Il dosaggio, semmai, serve ad esaltare determinate caratteristiche del vino. A cominciare dal frutto, dico io, e dall’indole territoriale.

L’ha spiegato molto bene il critico e wine writer americano Peter Liem in una relazione che ha tenuto di recente e di cui ho letto sull’ottimo wine magazine WineAnorak di Jamie Goodie. “Dosage is the single most misunderstood topic in Champagne” ha affermato. Aggiungendo che è un errore pensare allo zucchero come a una specie di additivo, perché questa visione porterebbe semplicisticamente ad eliminarlo. Invece il dosaggio, come ha sottolineato Liem, ha un po’ lo stesso ruolo che ha il sale nella cucina. “Non aggiungiamo il sale a un piatto per farne un piatto salato. Il sale ha la funzione di aumentare e amplificare i profumi che già ci sono. Senza, anche il prodotto migliore può risultare insipido“. Lo stesso per il dosaggio di uno spumante, Champagne, metodo classico o Prosecco che sia.

La domanda che si potrebbe porre, allora, è quale sia la proporzione migliore del dosaggio da usare. La risposta però l’ha data sempre Liem: non c’è un livello ideale, perché ogni vino è differente.

Capiamoci, a me, quando sono fatte molto, molto bene, piacciono le bollicine non dosate. Ma si tratta di casi rari, ed è la qualità del vino in sé che mi convince, in quei casi, non il fatto che non abbia zuccheri. Aggiungo un’affermazione che potrà far accapponare la pelle ai puristi, ma che ho fatta mia da tempo: se voglio far invecchiare uno spumante, a cominciare dal Prosecco, ne scelgo uno molto dosato, e dunque un dry se non addirittura un demi sec o un doux, a condizione, ovviamente, che il vino abbia sostanza. Adoro i sentori terziari che apportano gli zuccheri che caramellizzano, e a loro volta questi profumi evoluti enfatizzano l’appartenenza territoriale del vino. Ecco, arrivo a dire che gli zuccheri, se integrati in un vino di valore, non sono non nascondono il territorio, ma addirittura lo esaltano. Il che non è sempre vero con certi spumanti secchi o con certi vini ossidativi o con quelli figli di macerazioni estreme.


1 comment

  1. Maurizio Onorato

    … ma poi prima di parlare bisognerebbe sapere e poi pensare e magari riflettere se sia il caso … Una faticaccia!

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