I crucci dell’Amarone nel mondo che cambia

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Nel 2023 sono calate le vendite mondiali di quasi tutti i vini rossi. Hanno resistito, e anzi talora sono cresciuti, solo i rossi premium, i fine wine, insomma, quelli più reputati. L’Amarone della Valpolicella ha avuto una flessione del 17%, posizionandosi a 14,3 milioni di bottiglie vendute. Le esportazioni sono calate del 12%, assestandosi intorno ai 10 milioni di bottiglie; vuol dire che in Italia la caduta ha superato il 20%. Il fatto che l’Amarone scenda molto più dei rossi premium è un campanello d’allarme, perché può significare che in giro per il mondo l’Amarone non è percepito come un vino premium. Dunque, la definizione di Amarone come “re dei vini rossi”, che ho sentito usare parecchie volte nel corso di Amarone Opera Prima, l’evento veronese di presentazione dell’annata 2019, si troverebbe sminuita a una mera narrazione locale.

Il presidente del Consorzio di tutela dei vini della Valpolicella, Christian Marchesini, non si è detto preoccupato dei dati di vendita in discesa, perché le giacenze di Amarone (l’invenduto o il non ancora venduto) sono ai minimi, tant’è che nell’ultima vendemmia è stato autorizzato un aumento delle quantità complessiva di uve da portare in appassimento nei fruttai, in modo da rimpiazzare le scorte. Però ha sollecitato la filiera a prendere atto che “c’è un cambio di stile nel consumo di vino” e che “la dimensione probabilmente non crescerà più nei prossimi anni”. È buona cosa, dunque, che il Consorzio valpolicellese a interrogarsi sul futuro delle sue denominazioni, a partire dall’Amarone, come ha fatto nel convegno titolato “Clima, produzione e mercati: la Valpolicella alla prova del cambiamento”, e ancora di più fa bene il vicepresidente del Consorzio, Andrea Lonardi, recentissimo secondo Master of Wine italiano, nonché manager di uno dei maggiori brand dell’Amarone, Bertani, appartenente al gruppo Angelini Wine & Estates, a sottolineare come, sin qui, il territorio della Valpolicella e le sue uve siano stato assai poco studiati e che dell’appassimento ci si sia occupati più in termini quantitativi che non dal punto di vista qualitativo, tanto che c’è una lacuna di conoscenza in tema di vinificazione e di affinamento.

“Occorre pensare – ha detto Lonardi – a un Amarone che rimetta in equilibrio i suoi fattori produttivi: il metodo (la messa a riposo), il territorio (suolo, vitigni, clima), le persone (produttori, imprese) e la comunicazione. La sfida è chiaramente complessa, dal volume al valore, e richiede dei cambi: culturali, produttivi, legislativi e comunicativi”. Certo, dico io, è complesso, ma se in Valpolicella non si fa così, l’approdo nel ristretto circolo dei fine wine sarà una chimera irreggiungibile, soprattutto per un vino, l’Amarone, che ha appena una trentina d’anni di effettiva storia commerciale. Infatti, la notorietà e il successo di mercato sono arrivati soltanto negli anni Novanta. A parte casi sporadici, prima non si parlava di Amarone, e il vino più ambito delle vallate valpolicellesi era il Recioto: il vecchio disciplinare di produzione prevedeva che l’Amarone non fosse altro che la tipologia secca del Recioto. Ora il Recioto è pressoché scomparso, vittima del colpevole abbandono dei vini dolci da parte di chi beve vino. C’è di che meditare.

Nei fatti, tra i produttori della Valpolicella la consapevolezza che occorra “alleggerire” l’Amarone esiste. Non mi pare che siano invece diffuse le conoscenze su come farlo, e neppure che siano del tutto adeguati i vigneti, anch’essi da ripensare, in quanto “costruiti” nell’ultimo paio di decenni per dare uve super concentrate, che col riscaldamento in atto arrivano in fruttaio già troppo mature. Ne ho avuta la prova assaggiando alcune delle bottiglie di Amarone presenti alla rassegna veronese. Alcuni produttori – i meno – continuano a proporre imperterriti lo stile opulente degli anni Duemila, come nulla fosse cambiato, o come non sapessero fare diversamente; gli altri cercano colori meno densi e minor concentrazione, ma spesso a scapito della qualità del tannino, e non va bene, per chi mira in alto. Questo attesta come per la Valpolicella quella del cambiamento sia è una grossa sfida. Direi la prima vera grande sfida di una terra del vino che negli ultimi trent’anni le sue sfide le ha vinte tutte. Questa è un po’ più insidiosa delle altre, perché ha ancora ragione Lonardi nel dire che occorrono quattro generi di cambiamenti: culturali, produttivi, legislativi e comunicativi. Io sottolineo il primo, il cambiamento culturale. Il più difficile.