Quando un vino è buono, ma ti mette in difficoltà

petit_figeac_500

Questo è uno di quei vini che mi mettono in difficoltà. È buono? Sì, è buono. È tipico? Sì, è tipico. Lo ricomprerei? No, non lo ricomprerei, non perché non sia buono e non sia identitario, ma perché non è il tipo di vino che cerco io. Parlo del “second vin” di Château Figeac. Si chiama Petit-Figeac ed è un Saint-Émilion Grand Cru. On line costa all’incirca 60 euro, che non è un prezzo popolare, ma è sempre meno del “fratello maggiore”, il quale costa cinque volte tanto, intorno ai 300 euro.

È un rosso bordolese potente e complesso, e non mi stupisce che abbia ottenuto punteggi piuttosto alti da parte della critica americana: 94 centesimi da Wine Enthusiast, 93 da James Suckling, 92 da Vinous, 90 da Parker. Bel palmares. Meritato? Sì, meritato quando la struttura e la concentrazione sono considerati elementi fondamentali. Ma per me è come se gli mancasse un quid di vitalità, anche se non gli manca freschezza. Insomma, piace a chi privilegia il vino più monolitico rispetto a chi preferisce bere i vini più dinamici. Io sono della seconda scuola.

Probabilmente, il motivo dell’incompiutezza che in qualche modo gli attribuisco sta in una riga illustrativa pubblicata dal sito da cui l’ho comperato. “Selezionati nelle vigne più giovani – scrive -, i grappoli vengono raccolti, vinificati e imbottigliati come se si stesse producendo il vino principale”. Ecco, la giovinezza della vigna potrebbe essere la spiegazione. Ad ogni modo, per chi ama il genere, è un gran bere, e se qualcuno me ne offrisse un bicchiere, lo berrei comunque volentieri. Soprattutto se me lo offrisse tra quattro o cinque anni, quando il vino avrà raggiunto una definizione maggiore.

Saint-Émilion Grand Cru Petit-Figeac 2016 Château de Figeac
(88/100)

In questo articolo