Tracce di rosa parte #4

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Le definizione di “vino rosa” come termine che aggreghi il complesso e variegato mondo italiano del Rosato, del Chiaretto, del Cerasuolo, del Kretzer, dello Sciac-trà e del Rosè è dovuta a un colto produttore vinicolo e filosofo abruzzese, Luigi Cataldi Madonna. Assieme alla figlia Giulia, ora titolare di quarta generazione dell’azienda di famiglia, ha scritto un libro, uscito lo scorso gennaio, che porta il titolo eloquente di “Il vino è rosa“. Padre e figlia vi hanno dettagliato il loro approccio all’indole rosatista del vino, già a partire dell’importanza del nome. “L’importanza dei nomi – scrivono – è sancita dalla Bibbia. Uno dei primi compiti che Dio dà ad Adamo è appunto quello di dare nomi alle cose”. Il problema è che, “sebbene siano arbitrari, i nomi devono essere azzeccati“. Nel caso specifico, il vino rosa viene genericamente definito rosato o tutt’al più rosé, ma “come accade nel caso del vino bianco e rosso è il nome del colore corrispondente a far da parametro”, e dunque va chiamato “rosa”, semplicemente perché “rosa è il nome azzeccato per il vino rosa“.

Me ne feci convinto fin dalla prima volta che, nel corso di un incontro che avemmo in Abruzzo, Luigi Cataldi Madonna mi espresse questa convinzione. Ha ragione, e ovviamente il fatto che si parli di “vino rosa” non vuol dire che si debba rinunciare alle denominazioni esistenti, ossia tutte quelle che ho citato in apertura. Un Cirò Rosato è un vino rosa, un Cerasuolo d’Abruzzo è un vino rosa, un Chiaretto di Bardolino è un vino rosa, un Ormeasco Sciac-trà è un vino rosa, un Lagrein Kretzer è un vino rosa, un Franciacorta Rosé è un vino rosa. “Bisogna resettare il nostro comportamento rispetto al vino rosa – affermano Giulia e Luigi Cataldi Madonna -, lo esige lo stato miserabile della nostra produzione e dei nostri consumi“. Parole, dico io, da incidere nell’architrave delle cantine, sulle vetrate dei ristoranti e delle enoteche e anche sulle porte dei consorzi di tutela.

Peraltro, se il nome è uno, la natura del vino rosa è duplice, e anzi triplice, perché c’è quello prodotto “come se fosse un bianco ma utilizzando uve rosse” e c’è quello “prodotto come se fosse un rosso, ma senza completare la fermentazione con le bucce, oppure tagliando una parte di mosto non ancora fermentato con un’altra vinificata in rosso”. Questo plurimo approccio produttivo al vino rosa è una prerogativa storica dell’Italia, perché deriva da tradizioni diverse, ma ugualmente antiche, tant’è che “la tradizionale tripartizione resiste dall’Alto Medioevo ed è ormai congenita al senso comune“; il problema è che invece qualcuno, sia nel panorama della critica internazionale, sia nell’ambito della filiera produttiva, la considera una debolezza. Macché, è tutt’altro che un problema: libero rosa in libero vino, mi viene da esclamare.

Chi volesse meglio approfondire – cioè andare in profondità – tutte le diversità tecniche agronomiche e di cantina insiste nel panorama rosatista troverà nel libro un riferimento essenziale (Giulia ci ha scritto anche la sua tesi di laurea, che è stata spunto per la redazione del volume), ma non è su quest’aspetto che intendo, qui, soffermarmi. Insisto invece brevemente ancora sulla storicità, che ha una narrazione assai bene argomentata, incominciando dall’assunto che il primo vino della storia, in caso di uve rosse è stato rosa, giacché non si faceva macerazione con le bucce, al punto che “la letteratura nega l’esistenza di una vinificazione in rosso in epoca romana” e infatti “tra le numerose specie di vino in uso tra i Romani non ce ne sarebbe alcuna che sia il risultato della macerazione del pigiato”, affermazione che ai cultori del mito rossista può sembrare azzardata, ma è invece del tutto vera, e anch’io la sostegno da tempo. La vinificazione con le bucce incomincia a diventare pratica diffusa solo in epoca medievale, e comunque il colore rosa del vino è stato lungamento considerato di maggior valore del “nero”, salvo poi, in tempi moderni, avere un rovesciamento d’opinione, culminato, mi permetto di dire, nella deriva della muscolarità tannica e alcolica che ha preso voga dagli anni Ottanta, e tuttora in ampia parte sussiste.

Ora mi fermo, altrimenti svelo troppo di quanto è raccolto nel libro, e toglierei il piacere di consultarlo, ma  assicuro che ci troverete altre notizie che potrebbero, d’immediato, farvi sobbalzare sulla sedia, salvo poi verificarne il fondamento teoretico. Aggiungo solo che ritengo la lettura imprescindibile per chi abbia voglia di scoprire il senso vero del fare vino rosa, magari come prodromo a bere un po’ più rosa. Però, ripeto, “vino rosa”.

Giulia e Luigi Cataldi Madonna, Il vino è rosa, Topic, euro 25,00