Se vi piace la fotografia d’autore e passate da Brescia da qui al 2 marzo del prossimo anno, fate un salto al Museo di Santa Giulia, dove c’è la mostra “Zenit della fotografia” del fotoreporter Massimo Sestini, originario di Prato, in Toscana. Se invece non transitate dalla città, ma andate in cerca di bottiglie nella vicina Franciacorta, fate una sosta alla Freccianera dei Fratelli Berlucchi, a Borgonato di Corte Franca, dov’è allestita una sezione della medesima mostra. Così unirete l’assaggio di qualche buona bollicina con l’arte della fotografia.
A vedere l’esposizione a Santa Giulia non ci sono ancora stato, ma dai Berlucchi sì, e ho sentito Sestini che raccontava del suo lavoro e di come a un certo punto abbia deciso di cambiare i propri paradigmi, perché ormai le fotografie sul mercato erano tutte uguali, e i giornali compravano gli scatti solo dalle agenzie, che costano meno. Così decise di tradire l’insegnamento del maestro di tutti i reporter della fotografia, Robert Capa, il quale raccomandava di stare dentro la scena, per scattare. Sestini pensò che era meglio starci sopra all’avvenimento, e anche sotto, e dunque sviluppò la tecnica della fotografia con il drone e di quella con la macchina subacquea. L’esito è tale da produrre un senso di vertigine nell’osservatore, o quanto meno è successo a me di trovarmi stordito davanti a quelle scene riprese da un’angolazione talmente insolita che ti costringe a riflettere, a pensare, a interrogarti, che è poi la missione di un’opera d’arte. Perché, sì, fare fotografia è un’espressione dell’arte, è un modo di raccontare i giorni e la vita e la morte, anche, e il sudore e la passione e la speranza. Che cos’è, se non la speranza, quel che si legge nei sorrisi di quella massa umana che guarda, tutta, all’insù, su un barcone che porta i migranti verso le coste italiane? Quello scatto, che valse a Sestini il premio internazionale World Press Photo 2015, contiene una narrazione potentissima, così com’è potente l’istantanea, dall’alto, delle bare allineate dei morti del terremoto dell’Aquila, e quella degli attentati ai giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Lui c’era, a dare testimonianza, e quelle immagini ti strappano l’anima e il cuore. Il buon fotografo è sempre un testimone, e l’artista scuote sempre le coscienze. È un “testimone del tempo”, per usare la definizione, splendida, che diede di sé il giornalista Enzo Biagi, titolando a quel modo il libro che gli valse il premio Bancarella del 1971.
“Fotografare per raccontare il mondo, gli eventi pubblici, la cronaca, è stata l’idea del mio futuro che ho coltivato sin da adolscente. Ancora oggi, quarantacinque anni dopo, posso definirmi un appassionato”. Scrive così, Massimo Sestini, nell’introduzione del catalogo della duplice mostra bresciana. Io quella sua passione l’ho sentita trasudargli dalle parole fervorose con le quali spiegava a noi, ospiti in terra franciacortina, come nascono le immagini, e più che ancora delle parole, gli parlavano gli occhi, illuminati da quello stesso brillio che hanno gli sguardi dei bambini quando giocano.
Mi piace la gente che sa continuare a sognare. Per ringraziarlo, ho levato in suo onore il mio calice del Franciacorta Nature Freccianera. Giusto per un attimo, standomene raccolto in un angolo. Lui non mi ha visto. Gielo dico ora. Quanto al vino, non ricordo, purtroppo, se l’annata fosse la 2016 o la 2018. Comunque era un ritratto perfetto, e anch’esso potente, della Franciacorta.