Elisir di lunga vita, l’oro di Toblino

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I geografi la definiscono “valle monumentale”, per le particolari formazioni geologiche come le marmitte dei Giganti, i dossi, le valli sospese e le grandi frane: è la Valle dei Laghi che s’incontra salendo verso Nord dalla riviera settentrionale del Garda.

Io la considero un luogo poetico più che geografico, per lo splendore pacato e un po’ nascosto del paesaggio attorno ai nove laghi della valle, dove abeti e faggi, tipici del clima alpino, coesistono con lecci e olivi mediterranei e sulle colline, come un raffinato decoro, si distendono pergole di vigne.

Nasce esclusivamente qui un vino raro e dolce, il Vino Santo del Trentino, le cui origini si perdono nei secoli e nel fascino della leggenda, ma la cui produzione è radicata nella tradizione e nella storia delle famiglie della valle. Non c’è casa che non conservi qualche ricordo legato al Vino Santo, ch’è un vino di comunità, da offrirsi agli ospiti o nei riti familiari; un vino definito anche “curativo”, forse perchè prodotto con meticolosa cura, mettendo ad appassire sulle “arèle”, (graticci delle vinsantaie) i migliori grappoli di nosiola, l’unica varietà autoctona a bacca bianca del Trentino che ha resistito ai cambiamento del panorama viticolo post fillossera.

La preziosità del dolce nettare è cesellata dallo scorrere del tempo e dall’attesa.

Si raccolgono i grappoli migliori nella seconda metà di ottobre – la nosiola è varietà tardiva – e si attende pazientemente la settimana di Pasqua per ammostare le uve appassite naturalmente, grazie alla brezza quotidiana che arriva da sud, chiamata Ora del Garda.

La fermentazione si protrae fino all’autunno e il vino sosta poi nelle botti, con successivi travasi, per dieci anni o più, benchè il disciplinare di produzione permetta di porre in commercio il vino a quattro anni dalla vendemmia.

Bisogna arrivarci in Valle dei Laghi, per poterlo assaggiare: otto aziende (alcune delle quali fanno parte dell’Associazione Produttori del Vino Santo trentino) ne producono in tutto 20.000 bottiglie da mezzo litro. Una rarità.

Qualche giorno fa ho avuto l’onore di partecipare a una degustazione di Vino Santo presso la Cantina di Tobino, una cooperativa di 800 soci con 500 ettari di vigneti che non ha mai rinunciato a produrre questo vino prezioso, a partire dalla sua prima vendemmia del 1965. Sono state offerte ai fortunati partecipanti sette annate, partendo dalla 2003 ora in commercio e, a seguire, 2000, 1990, 1984, 1978, 1971, 1965.

Il segno più rilevante dello scorrere di circa un quarantennio?  La successione dei colori: l’oro lievemente brunito dell’annata più giovane si è via via fatto più intenso, fino a raggiungere il marrone scuro, detto “tonaca di frate”. Unica e sorprendente, in tutta la serie, la capacità di reggere il tempo, mantenendo un’inossidabile freschezza del sorso nella sempre suadente dolcezza.

In quarant’anni sono cambiate, oltre alle condizioni climatiche, anche le pratiche di cantina e dunque le annate più giovani hanno mostrato una “mano” più leggera rispetto alle più vetuste, in cui la pigiatura avveniva mantenendo i raspi; differenze che sono state percepite come sfumature di una “storia corale”, dove la modernità sostiene la tradizione.

Come un emblema ha brillato il nettare targato 1965, nel quale si sono condensati tutti i descrittori possibili: dalle erbe aromatiche, al mallo di noce, al dattero e all’uva sultanina, al miele di castagno, al cedro candito, con il frutto ancora presente nel finale lunghissimo.

Un vino, come la valle, “monumentale” al pari di un grande Sherry o di un grande Madera.  Avrei voluto portare con me quel bicchiere durante la visita alle segrete stanze di Castel Toblino, un luogo di leggende e un tempo anche di produzione del Vino Santo: sarebbe stata ancora più viva l’impressione di bere un raro sorso d’oro, un elisir di lunga vita.