Uno degli incontri più stimolanti e curiosi che ho fatto alla Slow Wine Fair di Bologna è stato quello con la titolare dell’azienda agricola Mazburka e con i suoi vini. Lo stimolo è stato verso una riflessione che proporrò più avanti in questo scritto, mentre l’aggettivo “curioso” l’ho usato perché Mazburka è in Lettonia, e io non avevo la minima idea che da quelle parti si facesse vino, e che il vino fosse, oltretutto, molto buono. Ho anzi scoperto che c’è addirittura un’organizzazione, la Latvijas Vīna Tūre (che potrei tradurre, in anglo-italiano, come Wine Tour Lettone), che riunisce, sotto l’egida governativa e con il contributo europeo, quattordici tra vignaioli e produttori di fermentati di frutta lettoni, per la promozione di percorsi enoturistici.
Tuttavia, ritorno al vino di cui ho accennato, e informo che è fatto con l’uva bianca di supaga, varietà interspecifica che proviene dalla madeleine angevine e dalla dvietes zila, ma lo dico più che altro a titolo di cronaca, avendolo letto on line, perché non ho la minima idea di che vitigni siano questi progenitori del supaga. “Da noi è una varietà popolare” mi ha detto la vignaiola, ma il mistero non è risolto. So però che il vino che se ne trae, leggermente dorato nella tonalità, ha una buonissima tenuta e anzi un progressivo miglioramento quanto meno nella prima manciata d’anni, stante che ne ho assaggiata sia l’annata 2022, sia la 2018. Se la prima risultava ancora non del tutto espressa, e anzi quasi rabbiosa di giovinezza, pur promettendo bene, la seconda, più vecchia, era invece fascinosamente austera, giocata sui profumi vanigliati dei fiori gialli, sull’aromaticità abbastanza inusuale del frutto succoso del nespolo del Giappone, sulla fragranza del panettone che viene da botteghe artigiane, ma senza alcuna dolcezza zuccherosa; semmai, giusto una traccia, lieve, di amabilità. Essendo riuscito a procurarmene una bottiglia, l’ho poi riprovato in abbinamento con un crudo di tonno rosso, e ci stava meravigliosamente, tant’è che io e i miei commensali abbiamo rapidamente finito il vino. Peccato che la produzione sia limitatissima (qualche centinaio di bottiglie appena, destinate in parte anche all’autoconsumo familiare) e che pertanto non sia importato in Italia, perché lo ricomprerei volentieri.
Al di là del vino in sé, credo che l’episodio – e qui sta la stimolazione concettuale cui m’hanno indotto l’assaggio e l’incontro – testimoni quanto una manifestazione come la Slow Wine Fair possa essere importante per aprire gli orizzonti del bevitore e delle stesse culture contadine. La produttrice lettone era qui proprio per confrontarsi con i colleghi italiani, prima ancora che per promuovere il suo vino. Un po’ quel che accade con gli altri prodotti agricoli a Terra Madre, e cioè il salone torinese di Slow Food. Anzi, mi piacerebbe che questi scambi culturali trovassero ancora più spazio alla Slow Wine Fair, e sarebbe gran bello se il Manifesto del Vino Buono Pulito e Giusto, lanciato da Slow Food, diventasse, magari tramite un’estensione dell’idea della Slow Wine Coalition, il propellente transnazionale di altre e ancora più ampie collaborazioni fra vignaioli d’Europa e del mondo, contribuendo non dico ad abbattere, ma almeno ad allentare quelle barriere nazionalistiche che sembrano invece rafforzarsi, di questi tempi. Insomma, va bene la fiera, ma andrebbe ancora meglio se l’appuntamento diventasse una specie di riunione internazionale degli stati generali dei vini contadini, rispettosi della sostenibilità ambientale e sociale, oltre che promotori di bellezza. A questo sogno brindo, virtualmente, con un bicchiere di Supaga.
Dry White Wine Supaga 2018 Mazburka
(89/100)
Dry White Wine Supaga 2022 Mazburka
(88/100)