Un ampio numero di commentatori della contingenza negativa che sta colpendo il settore del vino (spumanti esclusi) ipotizza che una parte della ragione della crisi risieda nello spostamento dei consumi, soprattutto presso le giovani generazioni, verso altri segmenti di alcolici, quali, ad esempio, la mixology o la birra, che avrebbero sostituito il vino. Io temo che, dal lato concettuale, il vero nodo dei problemi attuali del vino sia perfettamente rappresentato proprio nel pretendere di cercarne la causa in comparazioni come quelle che ho appena menzionato. Mi pare evidente, infatti, che agendo in tal modo si dichiara implicitamente che il vino costituisce una banale categoria di alcolici, da mettere sullo stesso piano delle altre, ma in questo caso il vino è destinato a essere perdente, perché le altre bevande alcoliche sono maggiormente identitarie in termini di riconoscibilità e di riproducibilità.
Proviamo a metterci nei panni di un consumatore occasionale di bevande alcoliche. Se chiedo una birra chiara, qualunque birra chiara mi venga servita risponde sostanzialmente all’idea che ho in testa di birra chiara: una bevanda amarognola e dissettante, con una leggera presenza di anidride carbonica e della spuma in superficie. Se domando una vodka, riceverò un bicchierino di un liquido trasparente non particolarmente profumato e di consistente presenza alcolica, che conferma la mia idea di vodka. Se domando un cocktail Negroni, a prescidere dall’abilità del barista, mi verrà presentato un bicchiere tozzo contenente molto ghiaccio e un liquido di colore rosso-aranciato dal gusto dolce-amaro, accompagnato da una fettina di arancia: è la riproduzione della mia memoria visiva e gustativa di un cocktail Negroni. Se desidero un vino rosso posso ricevere di tutto, a cominciare dal colore, molto variabile in termini di tonalità, per proseguire con i profumi e con la dimensione alcolica. Ne deriva che se il vino viene trattato come una qualunque altra bevanda alcolica, la sua estrema variabilità, che dovrebbe costituirne il valore principe, si trasforma in uno svantaggio colossale, poiché intimidisce il consumatore occasionale, il quale la volta successiva cercherà rassicurazione in una bevanda alcolica più rassicurante.
Il nodo è esattamente questo, solo che il settore del vino pare essersi perso in una schizofrenia che lo porta da un lato a enfatizzare i vitigni, i territori, le storie, in una comunicazione molto sfaccettata, e dall’altra a rappresentarsi, invece, come una banale sottocategoria di alcolici, confrontabile con tutte le altre, e dunque potenzialmente perdente. Il vero problema del vino è dunque il vino, inteso come settore che non possiede una narrazione propria, tale da rappresentarlo come un unicum non comparabile con alcunché.
C’è una sola eccezione, il prosecco, che con il suo stile riconoscibile e la sua massa produttiva ingente ha imposto, nel mondo, lo spumante italiano: se ci avete badato, in questa frase riguardante il prosecco non mi è stato nemmeno necessario citare la parola “vino”.