Il vino, i mercanti e gli uomini saccenti

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Non pensavo di poter parlare di comunicazione e di vino commentando la nomina di un vescovo. Eppure le parole del nuovo vescovo di Verona, Domenico Pompili, raccolte nell’intervista che gli ha rivolto Enrico Giardini per il quotidiano L’Arena, mi hanno fatto pensare a proposito della comunicazione e anche, di riflesso, della specifica comunicazione del vino. Però riconosco che il mio stupore ha poco fondamento, perché comunicare, nella vita, si deve, e anche il vino appartiene alla vita, e dunque può assumere anch’esso il significato di una metafora del vivere, magari attraverso la mediazione di parole vescovili. Così come entrambi, il vino e la comunicazione, sono parti integranti della mia idea di civiltà, che si basa sulla convivenza, sul vivere assieme, sullo scambio reciproco. Del resto, il vino c’entra, dato che traspare in una citazione del Vangelo di Matteo anche nell’apertura della lettera che, nel giorno di insediamento, monsignor Pompili ha inviato alla comunità della diocesi veronese: “Neppure si mette vino nuovo in otri vecchi, altrimenti gli otri scoppiano e così si versa il vino e si perdono gli otri. Ma il vino nuovo si mette in otri nuovi, così si conservano entrambi”.

Però torno all’intervista, e alla comunicazione. “Lei ha operato molto nelle comunicazioni sociali. Come si fa oggi a districarsi tra migliaia di dati, di informazioni, di parole?” gli ha chiesto Giardini. “La transizione digitale – ha risposto Pompili – ricorda il passaggio dalla parola orale a quella scritta. Platone diceva che la parola scritta avrebbe derubato l’uomo dalla memoria e quindi da sapienti la scrittura avrebbe reso gli uomini saccenti. Ora a ogni cambio tecnologico si accompagna un cambio antropologico. Come dice papa Francesco, dobbiamo recuperare il gusto di ascoltare con l’orecchio del cuore. Oggi si ascolta infatti con quello del mercante, visto che noi ormai siamo sorvegliati, ascoltati, ma per essere poi profilati come consumatori”.

Temo che quello di cui non ci stiamo accorgendo abbastanza sia proprio il cambio antropologico innescato dalla transizione avvenuta nella maniera di comunicare. È quanto, grosso modo, ricordava qualche giorno fa Jacopo Cossater nella sua rubrica sul quotidiano Domani riguardo all’interrelazione con il vino da parte delle nuove generazioni, riprendendo a sua volta un pezzo di Janice Williams su The Drop. L’assunto è che i nati nel nuovo millennio abbiano un approccio con il vino – e io aggiungo anche con il lavoro, con lo studio e con la socialità – lontano da quello dei genitori, perché sono portatori di valori diversi da quelli dei genitori, e potrei perfino dire che, per loro, è diverso soprattutto il valore del tempo, del denaro, dell’equilibrio della vita su un pianeta che si affaccia al dramma ambientale.

Se è così – e io sono convinto che sia così – valori diversi esigerebbero forme di comunicazione diversa, ma è vano pensare che il mero utilizzo delle nuove tecnologie corrisponda al saper praticare una nuova forma di comunicazione. Da utilizzatori meccanicistici degli strumenti tecnologici, ci trasformiamo in saccenti, convinti di sapere tutto, mentre non sappiamo nulla, essendoci evoluti in amplificatori di chi ci ha sorvegliati, ascoltati e profilati, per trasmetterci finte verità, ripetute in un’illusione di libertà, la quale rappresenta invece una rinnovata forma di schiavitù orientata al consumo. Ritengo che le nuove generazioni “native digitali” questo ce l’abbiamo molto chiaro, e dunque guardino con disorientamento alle generazioni precedenti, che vedono asservite. Siamo noi di altre generazioni che non l’abbiamo compreso, e dunque non comprendiamo loro, perché parliamo linguaggi sideralmente diversi. È vero quanto dice papa Francesco, e cioè che a loro, e agli altri anche, ci si può avvicinare soltanto se si ascolta con l’orecchio del cuore. Perché lo spirito di compassione, il sapersi appassionare all’altro, perfino il saper patire con l’altro, è un valore universale. Anche nel parlare di vino.