Il vino italiano e la sindrome da mercato internazionale

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Il problema è la sindrome da mercato internazionale. Ad esserne affetti sono molti (moltissimi) produttori italiani di vino. Ne ho avuto la riprova, l’ennesima, ma anche la più convincente, durante una degustazione riservata alla stampa.

I produttori erano stati invitati a presentare uno o due vini. Sapevano che il panel dei degustatori sarebbe stato composto in larghissima maggioranza da giornalisti esteri. Ebbene, in moltissimi hanno scelto di mandare vini rossi, scegliendo tra i vini rossi quelli che considerano “top di gamma”, fatti secondo il “gusto internazionale”, e dunque scurissimi di colore e muscolari nel tannino, nel fruttone e nell’alcol.

Il risultato? Una serie di vini ben costruiti ma banali, che sembravano fatti con lo stampino, a prescindere dal territorio di origine e dalle uve utilizzate. Territorio e vitigno di fatto erano sostanzialmente annientati da quella massa di tannicità alcolica e di iperfruttone. Roba che sarebbe andata bene in una degustazione di fine anni Novanta, ma che oggi è alla fin fine solo noiosa.

Ecco, il problema è questo qui: siccome sui mercati esteri quei vini trovano ancora ampia vendita, si ritiene che chiunque venga dall’estero apprezzi quei vini. Questa qui è la sindrome da mercato internazionale.

Invece no. Invece le cose stanno cambiando, pian piano, ma stanno cambiando, e a buona parte della critica estera quei vinoni, grazie al cielo, non interessano. Ci sono tanti wine writer nel mondo che cercano autenticità. Magari proviamo a ridargliela, se ne siamo ancora capaci.