Vini naturali contro vini convenzionali, e se…

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Di tanto in tanto lo scontro si riacutizza. Da una parte i detrattori del cosiddetto “vino naturale”, pronti a bollarlo col marchio d’infamia delle puzze e della volatile. Dall’altra i fieri avversari del vino “convenzionale”, accusato d’essere figlio della chimica e dell’omologazione. Più altri improperi vari da una parte e dall’altra, che arrivano talvolta a rasentare o superare il limite dell’offesa, da tanto acceso si fa il contendere. Con l’uno e con l’altro che pretendono che ognuno si schieri, o di qui o di là. E se invece avessero ragione entrambi i fronti dei contendenti?

Non dico “un po’ di ragione”. Dico proprio “ragione”, piena. Tutt’e due.

Certo, chi sta sull’una parte della barricata per interesse economico o per formazione enologica o sull’altro lato della barricata medesima per credo filosofico e talvolta ideologico, non ammetterà mai che vi sia una ragione condivisa. Ma gli altri, tutti gli altri, che ne fanno invece una ragione di gusto e in fin dei conti di piacere?

Ora, non voglio tirar fuori il vecchio motto che “non è bello ciò che è bello, ma è bello ciò che piace”. Però m’ha fatto molto riflettere un (lungo) intervento di Dwight Furrow sul blog 3 Quarks Daily. “The Controversy Over Natural Wines: Moral Purity or Moral Preening?” si intitola, e se avete voglia e tempo vi invito a leggerlo per intero.

C’è un passaggio, in particolare, che ho letto e riletto e che riporto qui: “Alla fin fine, non possiamo separare il sapore di un vino dall’idea di ciò che stiamo bevendo. Il sapore è un’idea influenzata dal nostro passato, dal nostro ambiente e, soprattutto, dai nostri pensieri su ciò che stiamo assaggiando. Gli appassionati di vino naturale non ignorano il gusto a favore del dogma. Definiscono il sapore in modo diverso perché hanno un’idea diversa di quale dovrebbe essere il sapore. L’idea convenzionale attuale secondo cui il grande vino deve essere ottenuto da uve molto mature, filtrate e affinate per rimuoverne le spigolosità, e passato in legno per aggiungere complessità è, di per se stessa, una specie di dogma. Non esiste un terreno neutro chiamato ‘sapore’ che definisca che cosa sia il sapore e le nostre varie ideologie influenzano inevitabilmente i nostri giudizi sul gusto”.

Ha ragione Furrow. Certo, ha ragione, ne sono convinto. La penso così praticamente da sempre riguardo alla tavola, scioccamente non avevo traslato la stessa convinzione al vino.

Leggendo queste righe mi è infatti tornata alla mente la lezione di Léo Moulin, grande studioso di storia medievale, ma anche autore di un lavoro – e per me un capolavoro – purtroppo non più in catalogo come “L’Europa a tavola”. In quel libro, Moulin sosteneva che la propensione o l’avversione per determinati cibi, come ad esempio le frattaglie o i molluschi (ma anche la carne di cavallo, tanto popolare nella mia terra veronese e tanto avversata dagli anglosassoni e dai germanici), deriva da arcaici tabù culturali o religiosi sedimentati nel nostro dna attraverso le generazioni. Troppo lungo qui approfondire il tema, prego il lettore di crederci sulla parola, o di cercare il testo di Moulin presso qualche negozio di libri usati. Però, sì, sono millenni di cultura e di convinzioni o prassi o riti della religione o della filosofia, anche mutata in ideologia, ad avere tuttora una netta influenza, seppure inconsapevole, sul nostro gusto. Ci credo e ne ho avuta diffusa riprova. Dunque, perché stupirsi se c’è chi trova “buono” il vino “convenzionale” e non quello “naturale” se c’è chi beve il vino “naturale” e non riesce ad adattarsi a quello “convenzionale”?

Poi c’è chi trova buono sia l’uno che l’altro. In modi diversi.