Un Bardolino, per esempio

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La gente che beve vino – non che degusta, che è un’altra cosa – cerca bottiglie che arrivino in fondo con piacevolezza e non costringano al mutuo. Che raccontino di frutto e territorio senza strafare, eppure sfoggiando classe e fattura quasi sartoriale. Un Bardolino, per esempio, se ‘sto rosso di riva gardense non si foss’imbastardito in troppi anni di successo turistico. Perché ci furon tempi che il Bardolino era vino di lignaggio. E dunque per dire del futuro – e ci arrivo – devo cominciare dal passato. Raccontando di quand’era un’altra cosa. Per cercar di capire cosa dovrà tornare a essere. E sta già diventando, in qualche caso.

Allora, com’era ‘sto Bardolino del passato? Diverso. C’era chi lo spacciava per «roba francese». Dice proprio così il Perez, veronese, ai primi del Novecento: «Li Svizzeri li spacciarono nei loro hotels per roba francese». Constatazione confermata dal Sormani Moretti: «Negli alberghi della Svizzera, dopo gli ultimi regimi doganali pei vini francesi, molti ettolitri di vino Bardolino e di Garda, sonvi accolti bene sotto il nome lionese di Beaujolais».

Se questa qui foss’anche la nostra chiave di volta? La similitudine transalpina.

Se questa fosse la chiave, dovremmo capire che cosa li faceva così Beaujolais-style. Ma il problema è che Beaujolais è troppo nota per il suo noveau. Meno invece, molto meno, almeno qui da noi, per i bei rossi a base d’uve di gamay. Rossi buoni subito, spettacolari col medio affinamento. Rossi che poggiano sul frutto appagante e sulla fresca piacevolezza di beva e anche su una cert’eleganza, che si fa di nobile velluto passato il primo tempo di bottiglia. Del resto, Beaujolais è terra borgognona. Lì si coltiva gamay, altrove pinot noir. Ma ci son certi gamay che del pinot han l’armonia e la finezza: giuro.

Eccoci qui, dunque: armonia, finezza. La chiave di volta d’ogni vino che si faccia bere.

Articolo originariamente pubblicato il 21 gennaio 2006