Tutti lo chiamano Lambrusco, il libro, un bel libro

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“Tutti lo chiamano Lambrusco” è un bel libro. Bello, intendo, anche come “oggetto libro”. Se ne vedono pochi in giro di libri stampati e impaginati e rilegati bene. Quelli che ci sono costano un occhio della testa. Questo qui no, è popolare, e non ha le dimensioni mastodontiche dei volumi che si regalano a Natale e finiscono, intonsi, nei salotti.

Non mi sarei stupito se il materiale che c’è dentro avesse dato vita a una rivista, invece che a un libro. Un magazine di quelli anglosassoni. Ne ha la struttura: un ampio servizio fotografico in bianco e nero, una serie di interviste in cui a parlare è soprattutto l’intervistato (sembra ovvio, ma spesso da noi non accade così), un testo di approfondimento.

Il libro è firmato da Camillo Favaro, le fotografie, avvincenti, sono di Maurizio Gjivovich, l’appendice storico-scientifica è di Marisa Fontana, la prefazione di Burton Anderson, l’idea di Giulio Loi, Filippo Marchi e Antonio Previdi. Protagonisti sono venti produttori – dai dilettanti colti ai vignaioli che stanno rivoluzionando il panorama fino agl’industriali avveduti – delle tre terre lambruschiste del Sorbara, del grasparossa e del salamino.

Delle interviste, ne riporto qui di seguito qualche spezzone, per rendere l’idea.

Quand’è che un Lambrusco è buono? “Questa è facile. Quando finisco la bottiglia. Quando profuma, si beve volentieri e non sono costretto a inventarmi delle storie per farmelo piacere. Però non fraintendetemi: questa immediatezza non deve sconfinare nella banalità, perché se no non ti resta niente. Nel Lambrusco la cosa più difficile da trovare è la personalità”. (Gian Paolo Isabella, Podere Il Saliceto).

“Di un libro non leggo mai l’introduzione. Non mi piace che mi vengano raccontate prima le cose. Mi leggo il libro, decido se mi è piaciuto oppure no, faccio i miei ragionamenti e solo dopo, forse, leggo l’introduzione. Per il vino credo sia la stessa cosa. La responsabilità del produttore finisce nel momento in cui si stappa la bottiglia, poi inizia quella di chi lo beve”. (Alberto Paltrinieri).

“Ci solo equilibri che solo la natura sa trovare. È dal 1988, quando ho comprato il mio appezzamento di terreno dove c’è una vigna piantata nel ’64, che non diserbo e non consimo. La chimica non è mai entrata nelle mie vigne. So per certo che lavorando così, come si faceva una volta, l’uva trova da sola il suo equilibrio, senza forzature”. (Luciano Saetti).

“Il vino si compra perché sia bevuto. E questo è ancora un altro problema. La cultura media della ristorazione si è abbassata moltissimo: gli ingredienti che acquistano sono quasi tutti di tipo industriale e poi non c’è più voglia di conoscere, di capire, di porsi domande sulla provenienza delle cose”. (Vittorio Graziano).

“Il Lambrusco, tutto sommato, ce lo beviamo noi, nelle nostre case, perché fa parte della nostra cultura e della nostra storia. E finché un vino si beve nella zona di produzione gli altri possono dire quello che vogliono, ma non può essere un ‘vino di marketing’, non è un vino inventato”. (Sandro Cavicchioli, Cavicchioli).

“Mi sono fatto l’idea che un primo passaggio per segnare una svolta consisterebbe nel chiamare i nostri vini semplicemente Sorbara o Grasparossa. Non per rinnegare che sia Lambrusco ma per presentarli per quello che sono. Non si può avere lo stesso nome per quattro o cinque vestiti diversi!” (Anselmo Chiarli, Cleto Chiarli).

Il libro costa 25 euro. Data la struttura che ha, si può leggere saltando qui e là, sbocconcellandolo. Ha anche un sito dedicato. Se vi piace il Lambrusco, ci vuole. Se non vi piace il Lambrusco, magari comincerà a piacervi.

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