Il triangolo magico schiava-tai-corvina

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Ho sempre pensato, e ne resto fermamente convinto, e anzi lo sono sempre di più, che esista nell’Italia settentrionale, tra Alto Adige e Veneto, una sorta di triangolo magico di uve rosse e relativi vini che non sono stati ancora considerati per quel che valgono, travolti come sono stati, per qualche decennio, dalla moda arrembante e non ancora sopita dei vinoni tutti colore, muscolo, alcol, tannino e concentrazione. Le uve sono la schiava, o vernatsch, in Alto Adige e un po’ in Trentino, il tai rosso, ex tocai rosso (e in realtà, pare, grenache), sui Colli Berici, nel Vicentino, e la corvina veronese del “mio” Bardolino sul Garda orientale, nel Veronese. Certo, c’è stato un tempo, e in parte c’è ancora, che con quelle uve di sono fatti vinelli da poco, ma nelle loro migliori espressioni fanno sì che quel triangolo somigli terribilmente alla Borgogna. È per vini come questi che coniai, nel 2009, il termine “vinino, in contrapposizione al succitato “vinone”, e ancora se ne parla, soprattutto oggi che quell’idea maturata una dozzina di anni fa sta, finalmente, diventando realtà.

Mi ci ha fatto ripensare, qualche settimana fa, un pezzo di Mario Plazio che ho pubblicato su questo mio The Internet Gourmet. Si trattava della recensione del My Tai, un tai rosso fuori doc prodotto dal vinnaturista Sauro Maule. Scriveva Mario, a proposito del vino e della tipologia: “Non serve rincorrere i vinoni potenti che altrove fanno e anche bene. Sarebbe invece interessante andare a lavorare sulla finezza e sulla bevibilità del Tai, cosa riuscita perfettamente a Maule“. Incuriosito dalle sue parole, ho voluto assaggiare anch’io questo My Tai. Me ne sono procurato una bottiglia del 2019 e non sono riuscito ad assaggiarla, nel senso che non ce l’ho fatta a limitarmi all’assaggio, ma l’ho bevuta di gran gusto. Il modello è decisamente quello che ho detto sopra, un “vinino” strabevibile, ma proprio per nulla banale – come ha da essere il “vinino” appunto – e un’indole che non si può definire che borgognona. Tant’è che, alla cieca, credo che si farebbe fatica a dire che non si tratta di un pinot nero della Borgogna, come accade anche per certe Schiave e per certi Bardolino, checché ne pensino gli scettici di professione, quelli che non escono mai dal guscio dello stereotipo e della loro comfort zone. Certo, se si ha esperienza del tai rosso (e del grenache), si capisce che non si tratta di un pinot nero soprattutto per quella tipicissima vena floreale e soprattutto agrumata che ricorda così da vicino il karkadè. Ma a dire il vero questa medesima nota l’ho trovata di recente anche in qualche Maranges o in qualche Savigny lès Beaunes, e dunque siamo punto e a capo.

Insomma, c’è tutto un mondo da scoprire nel triangolo color rosso scarico schiava-tai-corvina, e il My Tai è un perfetto punto di partenza. Fatevi avanti, anche se volete qualche consiglio sul viaggio alla scoperta del glorioso vinino ritrovato.

Veneto Tai Rosso My Tai 2019 Sauro Maule
(90/100)

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