Come trasformerei le fiere del vino

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Un paio di settimane fa chiedevo se le fiere del vino servano ancora. Personalmente, sono convinto che il settore sia – come si usa dire – “maturo”, ossia in sostanza “vecchio”. Temo che, se non verrà aggiornato, nella “nuova normalità” post pandemica rischi di avvitarsi in una specie di agonia. Ho raccolto, in pubblico e in privato, varie reazioni. Nella sostanza, accanto ad alcune conferme arrivate da aziende medio-grandi, quelle che più mi sono parse stimolanti sono pervenute da due diverse tipologie di utenti delle fiere e delle rassegne vinicole.

La prima categoria è costituita dai piccoli produttori che hanno avviato l’attività in tempi relativamente recenti. Per loro, l’evento a soggetto vinicolo rappresenta tuttora una delle pochissime occasioni di visibilità e quindi anche di reperimento di possibili sbocchi commerciali. Il problema è che hanno poco denaro da investire, e le fiere usualmente costano care.

La seconda tipologia di utenti di fiere ed eventi del vino è costituita dai gestori di enoteche e distribuzioni (fisiche o virtuali poco importa) o dai ristoratori, che, alla ricerca di referenze provenienti da determinati territori, gradirebbero avere uno spazio nel quale assaggiare più etichette possibili, ottimizzando i tempi, e un’area correlata dove incontrare i produttori risultati più interessanti. Questo accade già nelle anteprime, che tuttavia, svolgendosi in aree geografiche diverse tra loro, non offrono la contemporaneità che può esserci in una fiera. Peraltro, nelle fiere non è così frequente che esistano ampi spazi “regionali” per mettere in pratica questo genere di attività.

L’uno e l’altro caso non hanno fatto che rafforzare una convinzione che ho maturato da tempo. Ritengo infatti che per superare l’obsolescenza del sistema fieristico sarebbe utile la sottoscrizione di un patto strategico tra fiere e consorzi di tutela. Adesso spiego perché.

Sinora, gli enti fieristici e gli organizzatori di eventi hanno visto nei consorzi di tutela un “cliente” come un altro. Anzi, un cliente “un po’ più sfruttabile” degli altri, grazie ai cofinanziamente pubblici esistenti, che permettono una qualche “liberalità” nelle spese. Il problema è che un consorzio non è e non può essere un “cliente” come un altro di una fiera “commerciale”, poiché non “vende” direttamente niente. Un consorzio di tutela non ha scopi o attività commerciali, bensì promozionali, e la promozione può “aiutare” la vendita, ma “non fa” la vendita. Così stando le cose, la presenza di un consorzio di tutela a una fiera è quasi una contraddizione nei termini, se le fiere vogliono essere davvero – come quasi tutte dichiarano e poche fanno – un contesto b2b. Che cosa ci fa in un contesto commerciale un consorzio che non ha scopi commerciali?

La risposta alla domanda che ho proposto qui sopra, secondo me non può che essere una: un consorzio di tutela dovrebbe fare il “facilitatore” degli utilizzatori delle denominazioni tutelate dal consorzio, e per “utilizzatori” intendo quelli che mettono il vino di quelle denominazioni nelle bottiglie. Dovrebbe insomma essere il tramite attraverso il quale si creano le aree dove possano coesistere spazi degustativi “collettivi” e spazi correlati per incontri b2b tra il produttore e l’operatore. Non mi si dica che spazi del genere esistono già. Sinora, in genere, i consorzi “subaffittano” spazi frontali ad alcune aziende associate, il che non risponde alle necessità che ho espresso sopra.

Il problema è capire se le fiere siano disposte a stringere un patto con i consorzi in questa direzione, offrendo loro aree sufficientemente ampie per realizzare quelle “collettive territoriali” che gli operatori sembrano cercare, costituite da aree degustative altamente professionalizzate e correlati ambiti per incontri b2b con i produttori. A mio avviso, da un’intesa del genere le fiere potrebbero raccogliere vantaggi rilevanti, anche sotto il profilo economico (che è poi il primo obiettivo di una fiera, non dimentichiamocelo). Infatti, si ottimizzerebbero i costi e si amplierebbe la platea dei partecipanti, perché anche i produttori più piccoli potrebbero accedervi. La fiera diventerebbe così una specie di “hub” (oggi va di moda questo termine) del vino, a prescindere che si tratti di una fiera nazionale o di un’organizzazione più locale.

Una visione utopistica? Mah, io mi illudo che abbia della concretezza, altrimenti non la proporrei. Anche se capisco che compiere un percorso del genere non è una passeggiata. Ma se la posta in palio fossero la sopravvivenza e il rilancio?


2 comments

  1. Maurizio Onorato

    Angelo, m’interessa la tua ipotesi. È certo che qualcosa bisogna fare. Io, per parte mia, ho un pallino che coltivo da anni e di cui ho scritto ampiamente, specie da quando il Vinitaly (ne ho quasi tutte le 53 edizioni sulle spalle) ha occupato ogni metro quadro a disposizione, costringendo il visitatore a marce estenuanti che alla fine non gli lasciano nemmeno il tempo di rispondere a tutti gli inviti o di visitare quanto s’era ripromesso. Il vino è il nostro oro liquido, allora prenderei esempio proprio dal settore orafo e dei preziosi, dove le fiere che non si possono mancare sono disaggregate per target. Perché devo attraversare decine e decine di stand rivolti alla GDO se al momento m’interessano produzioni di nicchia, magari solo biologiche o biodinamiche? Perché io che ho un minimarket di quartiere devo rassegnato farmi strada tra Brunelli “ultracentenari” (con scherzoso riferimento al prezzo), Sassicaie ed Ornellaie varie? Che poi, spaziando con criterio le scadenze, nessuno m’impedirebbe di farle anche tutte, ma con la certezza di uscirne con le idee chiare.

  2. Angelo Peretti

    Angelo Peretti

    Maurizio, il problema è proprio questo: decidere se una fiera dev’essere un’occasione di business o un grande show. Spesso in passato è prevalso lo show. Probabilmente è il momento giusto per dare alle fiere una nuova dimensione, più concreta.

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