Sul rito della stappatura

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Non so se leggere le prose – le prose! – di una poetessa come Wislawa Szymborska mi stia in qualche modo condizionando, epperò mi destano comunque un sacco di considerazioni che si possono applicare anche al mondo del vino e di coloro che oggi si usano chiamare winelover, ossia i bevitori.
Stavolta mi rifaccio alla recensione che la Szymborska scrisse per una rivista letteraria a proposito di un volume sulla “Psicologia della superstizione” (recensiva di tutto, con spirito ironico, e la raccolta delle recensioni è in un volumetto Adelphi, “Come vivere in modo più confortevole”).
Disse dunque così: “Non esistono persone esenti da superstizioni – afferma lo psicologo Gustav Jahoda. Esistono soltanto persone più o meno superstiziose. Il convincimento dei razionalisti settecenteschi per cui in futuro il sapere, la civilizzazione e la mentalità laica avrebbero liberato l’uomo da ogni pregiudizio si è rivelato vano”.
Sorrido – tristemente, a dire il vero – pensando che la stessa cosa accade nel vino. Si vorrebbe laicamente razionalizzare ogni faccenda enoica, e dunque costruire disciplinari e regole e chiedere trasparenza sui lieviti e sugli “ingredienti” utilizzati nelle cantine e su quant’altro si faccia in vigna e fra le botti. Nel contempo, tuttavia, non si vuol rinunciare al (sacrale) rito della strappatura del sughero in favore di altre ben più pratiche e sicure chiusure. E lo si chiama proprio con quella parola, rito. Oppure ritualità, che è la stessa cosa. Per me è sinonimo di superstizione, appunto. Non siamo in grado di liberare dal pregiudizio neppure una bottiglia di vino.

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