Si fa presto a dire terroir

tralcio_240

Si dice: il vino deve esprimere il proprio terroir. Vero, verissimo: siamo un po’ tutti stufi di bottiglie identiche dalla Nuova Zelanda alla Francia, dalla Toscana al Cile, dal Sudafrica al Trentino. Ma bisogna intendersi su che cosa sia questo benedetto terroir.
Primo: il terroir non è il terreno. Il suolo, la sua composizione, è solo una delle componenti. Necessaria, ma non sufficiente. È vero che un certo profilo geologico incide sul vigneto e quindi poi sul vino. Ma questo non spiega perché in una medesima area nascano gioielli e anonime etichette. Secondo: il terroir non è il territorio, non solo. Certo, un Valpolicella è buono se ne esprime le arie, gli umori, la storia. Ma ancora non basta.
Terzo: il terroir non è nemmeno, come correbbe farci intendere una scuola di pensiero, la combinazione di suolo, clima e vitigno. Perché se si trattasse semplicemente del mix di questi ingredienti nulla ci salverebbe dall’omologazione.
C’è un elemento in più tra quelli che fanno il terroir d’un grande vino. È l’uomo, con la propria storia, il sapere acquisito con fatica, l’istinto e il sentimento. Perfino l’orgoglio: quello di fare un vino speciale con quel vitigno su quel terreno, mettendo in bottiglia l’anima della vigna, l’ambiente, il clima, la stagione.
Questo è il fondamento del terroir: l’umanesimo, non il tecnicismo razionalista. Questo fa davvero grande e personale un vino, lo rende unico ed irripetibile: l’uomo dentro il suo mondo, sulla sua terra, con la sua vigna.

articolo originariamente pubblicato il 14 febbraio 2004