Quando si discuteva di Quintarelli e Dal Forno

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Ai mondiali del Messico, nel 1970, perdemmo in finale col Brasile stellare di Pelè, ma subito prima gli azzurri avevano contrassegnato la storia del calcio con quell’Italia-Germania 4-3 che ha i contorni della leggenda. Le chiacchiere da bar e da giornale sportivo di quei giorni vissero sulla dicotomia Mazzola-Rivera, con il popolo del pallone che si divideva nel contrapporre la concretezza del primo con la creatività del secondo, mentre il commissario tecnico Valcareggi si ostinava nella staffetta tra di due. Probabilmente aveva ragione il ct, visto che alla finale comunque ci arrivammo e probabilmente pochi ci avrebbero scommesso alla vigilia-

Qualcosa di simile accadde nella Valpolicella del vino negli anni Novanta, quando la discussione verteva sulla supremazia del conservatore Quintarelli o dell’innovatore Dal Forno, assurti al ruolo di capofila delle due scuole di un Amarone che in quei giorni spiccava il volo della consacrazione internazionale, anche in termini di quotazione, e infatti le loro erano le bottiglie più care che circolavano, con prezzi molto oltre la media dell’area.

In realtà, Romano Dal Forno si è sempre considerato un allievo di Bepi Quintarelli, pur avendo scelto quasi subito di guardare in una direzione diversa rispetto a quella del maestro. Il proprio debito di riconoscenza l’ha ricordato durante una recente serata di conversazioni e di calici colmi che s’è svolta alla cantina di Fausto Maculan, a Breganze, dove si sono riuniti alcuni degli interpreti della rinascita del vino italiano degli anni Ottanta e Novanta. “Quintarelli mi ha fatto vedere un orizzonte diverso” ha sottolineato Dal Forno e si è soffermato più volte sul significato di quell’incontro che, ventiduenne, ebbe col Bepi a Negrar, quando si avvicinò a quella che chiama una “filosofia” del vino integralmente improntata alla ricerca della qualità assoluta.

Solo che il Bepi era a Negrar, appunto, in zona Classica, e Romano aveva i campi a Illasi, nella zona cosiddetta zona allargata, e “nell’83 neanche la Classica godeva di grande splendore, figuriamoci l’allargata”. Insomma, se si voleva emergere avendo vigna lontano dall’area storica bisognava ripensare la maniera di fare il vino, così dopo tre o quattro anni Dal Forno decise che era necessario pensare ad altro. “C’era il riferimento alla tradizione – ha raccontato -, ma la tradizione non l’ho mai percepita come qualcosa di statico. Si spostano i continenti, possiamo pensare che resti fermo il vino?” Dunque, diradamenti feroci, impianti fittissimi, notti insonni perché gli investimenti erano pesanti e il futuro tutto da sondare.

Chi aveva ragione, il tradizionalista di Negrar o il visionario di Illasi? Probabilmente avevano ragione sia Quintarelli che Dal Forno, e infatti grazie a loro e ad un’altra manciata di produttori l’Amarone è arrivato a sedersi nell’Olimpo del vino mondiale.

A Breganze ho anche avuto occasione di bere un Amarone di Dal Forno, quell dell’annata 2011, giovanissimo dunque. Un vino intriso di fruttino fittissimo e innervato di memorie d’erbe alpestri. Traversato da una spina di freschezza che rigenera il sorso. Cesellato.

Dice Romano che nella sua concezione “l’Amarone non lo vedo abbinato ad un piatto, ma lo vedo come fonte di emozione, quasi da brivido” perché è un rosso impegnativo per alcolcità e per struttura, e dunque “abbinarlo non lo vedo di buon occhio, ma piuttosto lo vedo bene a fine pasto”. Va bene, però non voglio recargli offesa dicendo che comunque sulla tavola, in cantina, ci stava bene assai. Anche se, certo, il rischio è di smarrirne le molte sfaccettature.

Amarone della Valpolicella Monte Lodoletta 2011 Romano Dal Forno
(93/100)