Ma questo rosé è più buono o più inquietante?

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Non so se sia più corretto che io cominci dicendo che questo rosé l’ho trovato molto buono oppure scrivendo che l’ho trovato per certi versi inquietante, perché – badate – sono vere tutte e due le cose.

Che sia buono lo confermo: l’ho bevuto e lo riberrei. Ma l’ho bevuto (e parimenti lo riberrei) con una certa inquietudine, perché in etichetta dichiara 15,5 gradi di alcol. Che non sono una sciocchezza, soprattutto in un rosé che ti tracanneresti un calice dietro l’altro.

Il vino in questione è il Sancerre Rosé, annata 2018, di Daniel Crochet, “vigneron a Bué”, come si presenta sull’etichetta. Neppure Luca Ghiotto, che lo vende (leggi Soavino), riesce a capacitarsi del perché abbia una simile dotazione alcolica: in passato non era mai stato così alto. Da qui proviene la mia inquietudine. Perché è vero che a Bué i Sancerre, anche e soprattutto quelli bianchi, sono normalmente più grassi, tendenti quasi all’opulenza in certe annate (le più calde), ma arrivare a quindici e mezzo di alcol su un rosé è davvero tanto anche per un vino fatto nelle vigne che stanno a Bué. Se dunque la spiegazione fosse connessa al “global warming”, al riscaldamento globale, be’, ci sarebbe davvero da inquietarsi. Ecco perché dicevo che questo rosé è buonissimo, ma anche potenzialmente inquietante.

Sul buonissimo, comunque, non si discute. La fragola di pinot noir troneggia su un substrato di acidità vibrante, che ricorda d’immediato la Loira, appunto. Vene agrumate innervano un corpo massiccio. La freschezza tiene a bada la potenza alcolica. Il finale è asciutto e succoso.

Un rosé da piatti “importanti”. Da non prendere sottogamba, però, perché è facile farsi prendere la mano e versare un calice dopo l’altro.

Sancerre Rosé 2018 Daniel Crochet
(89/100))