Qui siamo all’Apice

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Con qualche vitigno ho un brutto rapporto, nel senso che faccio una fatica terribile a bere i vini che ne sono tratti quando hanno un carattere che sia molto più (o quasi solo) varietale che territoriale. Con tre uve, in particolare, due bianche e una rossa. Insomma, non mi piace sentire l’aroma che definisco “farmaceutico” dello chardonnay se invece posso sentire i fianchi della collina di Montrachet e non voglio sentire le pesantezze di pomodoro e pipì di gatto del sauvignon quando posso sentire Sancerre e le ripide vigne sopra Chavignol o quelle più calde verso Bué. Questo per le uve bianche. Per le rosse faccio una gran fatica con la syrah, e l’articolo lo metto al femminile perché così fanno in madre patria, in Francia. Se ho nel bicchiere un rosso che “sa di syrah” mi diventa faticoso berlo, perché so che esiste la Côte-Rôtie, dove usano la syrah, ma là i vini sanno di Côte-Rôtie e semmai della Côte Brune e dei suoi micascisti e della Côte Blonde fatta di gneiss e sabbia argillosa.

Ciò premesso, posso dire che in Italia c’è almeno un vino che è fatto con la syrah, ma che non sa di syrah e ha invece un’indole terragna e un’eleganza contadina che mi hanno lasciato a bocc’aperta. Si tratta dell’Apice che fa a Cortona il vignaiolo Stefano Amerighi. In questi giorni sta uscendo in commercio l’annata 2016, che assaggiai in anteprima in una degustazione di cui qui su The Internet Gourmet ha già parlato Mario Plazio. Un rosso di una complessità avvincente, tra l’animalesco e il pepato e il terroso e il floreale e l’officinale, e ha tracce di cenere di camino e di pasta d’oliva, ma è anche e soprattutto la dinamicità al palato che mi affascina. Un grande rosso cortonese fatto con uve non toscane che si sono acclimatate in forma perfetta diventando “altro” rispetto alla varietà. Ecco, questo è quanto cerco in un vino che si possa definire “grande”.

Apice 2016 Stefano Amerighi
(94/100)