Quanto costano le divisioni sull’Amarone?

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Non so se ci sia un rapporto di causa-effetto, però m’inquieta un po’ che Wine Spectator prima dedichi un ampio servizio a quel che chiama “Amarone’s Great Divide”, la grande divisione dell’Amarone, e poi non inserisca neppure un’etichetta valpolicellese nella sua Top 100, dove invece figurano il Barolo, il Barbaresco, il Brunello, il Chianti, ossia gli altri grandi player del panorama rossista italiano.
Il servizio sulle contrapposizioni interne al mondo amaronista è sul numero di dicembre. Sono sette pagine, un’enormità. Alison Napjus racconta di quanto sia cresciuto in termini di produzione e di vendite l’Amarone, “but with this success – scrive – has also come division: the regione is now riding a tumultuous wave of shifting styles and internal conflicts”. Due righe che tracciano un’analisi che può sembrare impietosa, scrivendo in apertura di pezzo che “insieme col successo, è arrivata anche la divisione: la zona sta cavalcando un’onda tumultuosa di stili mutevoli e di conflitti interni”. Mica una bella cosa, proprio no, che gli americani siano costretti a leggere ‘sta cosa.
Orbene, quando mi chiedevo perché l’Amarone fosse fuori dalla Top 100 di Wine Spectator, lo facevo avendo davanti proprio l’articolo di Alison Napjus, e mi domandavo dunque se la risposta non fosse proprio lì, nei dubbi sollevati dalla rivista americana sulla sfaccettata divisione che si sta vedendo in Valpolicella: da una parte i conflitti interni sulle previsioni del disciplinare di produzione, dall’altra gli stili divergenti dei tradizionalisti, degli innovatori e di chi mette in commercio vini più – come dire – “commerciali”.
In sé, che esistano diversificazioni di pensiero e di prassi non è un male. Il problema è, appunto, quando la diversità viene percepita come una divisione. Mi pongo allora un’altra domanda: quanto sta costando alla Valpolicella questa percezione delle divisioni – stilistiche, interpretative, perfino giudiziarie – della filiera dell’Amarone?