Parola d’ordine: meno alcol nel vino

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Fino a qualche anno fa, e in molti casi anche oggi, la super concentrazione di un vino era vista, e ancora lo è, come un pregio. Però le cose stanno pian piano cambiando, mi pare. Quanto meno da parte della critica internazionale. Che in molti casi non sembra più vedere nella concentrazione, nella muscolosità, un elemento di rilievo. Anzi. La nuova parola d’ordine sembra questa: meno alcol nel vino. Finalmente.
Era ora che si arrivasse a una svolta. Anche se i danni ormai sono stati fatti, e che danni! Migliaia e migliaia di ettari di vigne piantate per fare uve iper concentrate da cui trarre vinoni non sono faccenda da poco. E comunque, insisto, quei vinoni vendono ancora molto bene su molti mercati. Su quasi tutti i mercati, aggiungo. Ci vorranno anni per invertire la rotta.
Comunque, dicevo, la critica sembra aver cominciato a imboccare una nuova strada. Prendo ad esempio a prestito quel che scrive una wine writer che stimo, Kerin O’Keefe, su Wine Enthusiast. Le sue parole sono chiare. Dice così: “Alcuni produttori italiani sembrano contenti nel vedere che i livelli di alcol crescono. Forse credono che offrire vini robusti, con l’alcol in evidenza, possa far loro mettere in granaio punteggi più alti da parte della critica. Ma questi sono gli stessi vini che nella vita reale sono spesso lasciati sulla tavola, non finiti. Sono ingrati da bere e impossibili da abbinare col cibo”.
Ecco, sono segnali di svolta.


3 comments

  1. Valentina Chiarini

    Buongiorno signor Peretti,
    il suo articolo mi fa riflettere su come si riescono a creare mode e sull’uso che se ne fa: parlo non come produttrice di vino, ma come moglie di produttore vitivinicolo che osserva giorno per giorno e anno dopo anno cosa succede in vigna , in cantina e nel mondo dei consumatori, insomma sul campo vero e proprio. E come consumatrice che apprezza un buon bicchiere di vino. Ma parlo anche come una persona che se può trovare divertente qualche elemento per così dire “modaiolo”, ritiene scomodi e brutti i jeans strettissimi a vita bassa, non riesce a bere quasi nessun vino cosiddetto naturale e salverebbe molto poco dell’attuale narrativa mediorientale, solo per fare qualche esempio. Il punto, mi sembra, non è l’assunto formulato da un critico, per quanto competente, o il gusto della gente in generale. E neanche chi produce vinoni pompati. Quando si fa un lavoro come il produttore di vino, o lo si fa a livello industriale e allora sì che bisogna essere attentissimi al mercato o al critico di turno, oppure lo si fa a livello artigianale perché è quello il mestiere che appassiona , nel bene e nel male. Certo, poi si può essere produttori artigianali furbetti e cavalcare la tigre di passaggio. Ma il punto è che un vino, secondo me, deve essere buono e deve rispettare/rispecchiare la materia prima da cui proviene e le condizioni che ne hanno determinato l’essenza. Ci sono splendide uve con una bassa resa spontanea e ad alta gradazione anche se vendemmiate presto. Altre, come per esempio il Trebbiano, sono generose ma spesso acquose. La misura, a mio avviso, non dovrebbe essere il grado alcolico ma aromi, sapori e sostanza che si concentrano nell’uva,; e non mi piace forzare un’uva in vigna né un vino in cantina; riuscire a farli esprimere al meglio, questo sì. In Germania dati i presupposti climatici un Riesling può essere meraviglioso con 11 gradi. Qua in Italia, nel centro Italia dove siamo noi, perché dovremmo nascondere il sole e la mitezza del clima? In queste terre uno Chardonnay di 11 -12 gradi significa aver prodotto una marea di uva che non sa di niente.
    Un vino può avere una gradazione alta ed essere ottimo e abbinabile a una grande varietà di cibo, checché se ne dica o se ne scriva. E un vino che proviene da uve modeste, come molti vini da uve cosiddette autoctone che adesso vanno per la maggiore e dei quali sembra non si possa assolutamente fare a meno, resta anch’esso modesto. Ma un vino ben fatto e buono se avrà un’alta gradazione alcolica questa non sarà in evidenza, e mi sembra essere quest0 l’aspetto di cui si dovrebbe tener conto. Poi si può disquisire sul fatto che a volte può andare un certo tipo di vino anziché un altro, dipende dall’occasione , dal cibo, dall’umore, dal tempo atmosferico etc. , certo che non va sempre di bere vini importanti, e ci mancherebbe!
    Il discorso è molto ampio e meriterebbe ben più di un articolo, perché in realtà partendo dal un prodotto come il vino si arriva a considerazioni che implicano campi più vasti e interi modi di pensare. Ma per ora atteniamoci a questo.
    Cordiali saluti
    Valentina Chiarini Wulf

  2. #angeloperetti

    #angeloperetti

    Salve Valentina. Grazie per il commento. Però, veda, non è solo questione di clima. Concorrono un sacco di altri fattori, come lei ben sa. Per esempio scelta del vitigno, del clone, del portainnesti, della forma di allevamento e di gestione, delle tecniche di potatura… E questo solo per limitarsi alla vigna.
    E comunque ci sono altri interrogativi, come ad esempio perché mai piantare chardonnay nel Lazio. Non è una forzatura anche questa? Non è anche questa una scorciatoia?
    Dalla metà degli anni Ottanta ad oggi la viticoltura è come impazzita, inseguendo percorsi che non appartengono alle storie stratificate nei territori, travolgendo il paesaggio agrario e viticolo. I risultati sono esattamente quelli espressi da Kerin O’Keefe, e sono cioè vinoni che spesse volte somigliano a delle caricature del vino.
    Il problema non è la gradazione. Il problema è l’equilibrio, ed io credo che l’equilibrio si ottenga solo quando vi è rispetto per quanto il terroir insegna, e per terroir non intendo meramente il territorio con i suoi aspetti fisici e climatici.

  3. Valentina Chiarini

    Certo so bene che concorrono mille altri fattori. Ho portato lo Chardonnay solo come esempio, e comunque mi chiedo anche se è davvero così grave impiantarlo nel Lazio. Se la viticoltura è impazzita negli anni ottanta anche oggi non mi sembra che stia molto bene. La vera forzatura, a mio parere, è voler cercare quello che non c’è in nome di uno dei tanti “ismi” o delle tante mode che si avvicendano. E’ forzatura voler avere un vino di un certo livello da un vitigno che seppure autoctono proprio non ce la fa (e forse è stato abbandonato proprio per quel motivo, o perché si ammala troppo facilmente con tutte le implicazioni che questo comporta), o voler usare per forza un certo tipo di vinificazione anziché un’altra. E così via. Sono convinta che la ricerca e la curiosità di nuovi cammini da intraprendere siano fondamentali per fare un buon lavoro, che non significa rifiutare la tradizione, tutt’altro ; purché ci sia rigore e onestà non è questo che uccide la cultura, nemmeno quella vinicola, e soprattutto non è questo a distruggere un territorio, mi sembra. Perniciosa è la logica del profitto, la disonestà intellettuale e non, e l’ignoranza. Sono d’accordo invece sul fatto che il problema non è la gradazione ma l’equilibrio, nel vino anche in altri campi: è proprio quello che cerco di trasmettere nel mio articolo e, mi permetto una punta polemica, non mi sembra che la O’Keefe lo abbia espresso con le ultime frasi citate.

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