Ovada, Dogliani e il vitigno che oscura l’identità

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Ci sono, in Italia, alcune denominazioni di origine che sembrano lì lì per decollare, perché i vini che vi si producono sono sempre più buoni e identitari, ma le cui ali vengono continuamente tarpate dai loro stessi estimatori, che rifiutano implicitamente (seppure in buona fede) di riconoscerne l’identità e la specificità territoriale, assecondando invece atavici pregiudizi.

Tipici esempi sono le denominazioni di origine di Ovada e di Dogliani. Grazie al lavoro gigantesco – sì, gigantesco – compiuto con pochi mezzi e tanta buona volontà da numerosi vignaioli, quelle due denominazioni sono oggi tra le più interessanti d’Italia. Me ne sono reso conto recandomi in zona, parlando con i produttori, assaggiando i vini, e anche leggendo quanto comunicano. Tuttavia, in aggiunta alla difficoltà di doversi fare largo in una regione – il Piemonte – già affollata di vini notevolissimi (Barolo e Barbaresco in primis, ovviamente), su di loro grava un pregiudizio che pare, purtroppo, inscalfibile, anche da parte di molti tra coloro che ne apprezzano i vini. L’ultimo esempio in ordine temporale l’ho avuto qualche giorno fa. Un testo on line elogiava un vino di cui si riproduceva l’etichetta, ed era l’etichetta di un Dogliani. In etichetta era scritto proprio così, Dogliani Docg, ma lo scritto non parlava mai di Dogliani e invece sempre e solo di dolcetto, che è l’uva con cui si fa il Dogliani. Non voglio minimamente tirare la croce addosso all’autore del post, perché ne riconosco le buone intenzioni e oltretutto perché non si tratta di un caso isolato. Accade spesso, e lo stesso succede con l’Ovada, che soffre del medesimo problema comunicazionale, col nome dell’uva, il dolcetto, che emargina quello del luogo.

A prescindere dalle sfaccettature normative dei singoli disciplinari di produzione, finché non smetteremo tutti di far prevalere il nome dell’uva rispetto al nome del luogo, il luogo non emergerà e l’identità del vino sarà negata nei fatti. Chi si sognerebbe mai di scrivere un post su un Barolo parlando solo di nebbiolo senza mai citare il nome Barolo?

Questo dal lato dell’utenza, ma anche dal lato della produzione, perfino a prescindere dal grande impegno messo in campo per la crescita qualitativa dei vini, credo che dalle parti di Ovada e di Dogliani ci sia da fare ancora molto per comunicare la propria identità. Con una strategia precisa e possibilmente condivisa. Mi si obietterà che c’è una terza denominazione che soffre del medesimo problema, ed è quella di Diano d’Alba. Obietto a mia volta che ne conosco meno le dinamiche interne, per cui mi limito a scrivere di quel che conosco un po’ meglio.