Non è un paese per rosati

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Il titolo – “Non è un paese per rosati” – non è mica mio. L’ho preso da un titoletto contenuto in un post di Lorenzo Biscontin su Vinix.

Biscontin, che è un esperto di marketing, ha analizzato con profondità l’indagine dell’Iri sulle vendite di vini nella grande distribuzione italiana. L’indagine è quella presentata all’ultimo Vinitaly.

Bollicine a parte, la sintesi dell’andamento delle diverse tipologie di prodotto è contenuta in questa frase: “I vini fermi calano di circa -40.000 hl, pari al -0,9%. Questo valore è il risultato di dinamiche diverse tra i vini bianchi (+1.851 hl; +0,1%), rossi (-30.314 hl; – 1,3%) ed i rosati (-10.986 hl; -4,5%)”. Insomma, aggiungo io, guardando alle sole percentuali i bianchi tengono, i rossi calano ma non drammaticamente, per i rosati è una mezza disfatta, soprattutto se pensiamo che altrove i rosé crescono a doppia cifra nelle vendite. Per i vini in rosa, “il successo annunciato, o sperato, sulla base dei trend positivi per i rosati in Francia, U.S.A. e Regno Unito – commenta Biscontin – qui da noi sembra ancora distante”.

La cosa non mi stupisce per niente, tant’è che durante tutto il 2016 avevo insistito nel sottolineare con (mia) soddisfazione la tenuta di mercato del Chiaretto bardolinese rispetto a una performance che ho sempre ritenuto in corso d’anno negativa per l’insieme dei rosati italiani. A dire il vero, la mia impressione era che non mi si credesse molto. Ora ci sono i numeri che dicono che era davvero così. Bene. Anzi, male, perché ai rosé io ci tengo, e questi numeri non mi piacciono per niente.

Ora, ci sarebbe da domandarsi, come ha fatto Fabio Pracchia di recente su Slowine, perché il rosé non sfonda in Italia. Mi sono permesso di commentare su Facebook che la spiegazione stava proprio dentro l’articolo di Pracchia. Raccontava di una degustazione di rosé tenutasi presso un produttore e diceva che avevano ricevuto consenso un rosato italiano fermentato e affinato in legno e un altro rosato italiano da uve merlot. “Vergogna per uno dei vini più venduti in America, secondo quanto dichiarato dal padrone di casa”, aggiungeva.

Ecco, la spiegazione dell’insuccesso del rosato in Italia sta proprio tutta qui. Nel pensare che il rosato italiano possa o debba essere un vino “aziendale”, fatto in qualunque territorio, con qualunque uva, con qualunque tecnica, con qualunque stile. E non invece che possa e debba essere un vino che abbia fortissimi caratteri stilistici identitari in ciascun singolo territorio.

In Provenza fanno, nelle diverse appellation locali, circa 200 milioni di bottiglie di rosé l’anno. Ovviamente, ce ne sono di più buoni e di meno buoni, di più economici e di più costosi, ma hanno praticamente tutti (le rare eccezioni confermano la regola, no?) una cifra stilistica inconfondbile già dal colore. Li vedi e pensi da subito che sono dei rosé provenzali. In zona, pressoché tutti si impegnano a stare dentro a quella cifra stilistica che è percepita come identitaria e territoriale. Non è mica un caso che abbiano successo. E pazienza se poi qualche produttore italiano prova “vergogna” per un rosé provenzale che nel 2016 ha venduto solo negli Stati Uniti quasi tre milioni di bottiglie intorno ai 22 dollari a bottiglia, che fanno, solo in America, un volume d’affari sopra ai 60 milioni di dollari, per un unico rosé provenzale di un’unica azienda, e poi vanno aggiunte tutte le altre.

Badate, se quel singolo rosé di quella singola cantina provenzale rappresentasse una denominazione di origine italiana, sarebbe, da solo, la terza doc rosatista della nostra penisola. La terza per dimensioni, intendo, forse di più che la terza per volume d’affari. Siamo dei nani e lo saremo per sempre finché non pensiamo al rosato in maniera diversa, profondamente diversa, rispetto al modo in cui si pensano gli altri vini.