Il Lambrusco nei bicchieri di carta dell’Avis si può

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C’è stato un periodo in cui collaboravo contemporaneamente con la guida dei ristoranti de L’Espresso (quando era curata da Edoardo Raspelli), con Osteria d’Italia di Slow Food e con Vini d’Italia, in quel tempo ancora targata contestualmente dal Gambero Rosso e da Slow Food. Capitava dunque che i miei colleghi si stupissero di vedermi nella mensa aziendale a mangiare riso in bianco e fettine alla pizzaiola, non disdegnando di accompagnarle di tanto in tanto con un brik di quelli piccoli di Tavernello. Al di là che mica sempre ci si può permettere di andare al ristorante, comunque quello era un esercizio che consideravo utile. Per tarare il palato e il giudizio.

Mi spiego. Prendiamo il vino. Se un litro di Tavernello oggi lo trovi in vendita intorno all’euro e mezzo o poco più, pretendo che una bottiglia di vino che costa dieci euro valga almeno cinque o sei volte tanto in termini di piacevolezza e sostanza. Altrimenti è meglio il Tavernello.

Mi si potrà eccepire che una simile comparazione non si può fare basandosi esclusivamente sul prezzo. Invece sì, per me si può fare. Per questo sono piuttosto esigente quando valuto un vino e lo sono altrettanto quando il vino lo prendo al ristorante, dove i ricarichi hanno da essere giustificati quanto meno dalla qualità del servizio. Mi dimentico di ogni esigenza, invece, quando, in certe occasioni di piazza, mi si offre del vino più popolare. Perché allora non bado proprio alla forma e alla fin fine che conta è l’occasione. Ho bevuto qualche giorno fa un Lambrusco in un bicchiere di carta dell’Avis. Sapere che l’incasso era destinato a fini sociali era sufficiente. Per di più, il risotto cucinato dagli avisini era anche piuttosto buono.

Ecco, bere il vino nel bicchiere di carta dell’Avis, e di tante altre associazioni che fanno solidarietà, si può. Magari si deve. Ed è anche utile. Perché si fa qualcosa per gli altri, e si fa anche qualcosa per se stessi, ché abbassare le pretese talvolta fa un gran bene.