Io sto con Jamie Goode, basta commissioni delle doc

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Insisto, per me le commissioni di assaggio che devono stabilire su un vino sia idoneo o meno ad avere la doc vanno abolite. Il motivo è semplice: le doc impongono regole chiarissime su un sacco di elementi, anche chimico-fisici, del vino, e dunque chi li rispetta integralmente e li certifica (ed è obbligatorio certificarli), perché mai deve sottomettersi al soggettivissimo giudizio di un gruppo di assaggiatori?

L’ho già scritto e l’ho ribadito più di una volta e torno a riaffermarlo dopo aver letto un illuminante articolo che il wine writer britannico Jamie Goode ha pubblicato sul suo blog. Dicendo sostanzialmente la stessa cosa, e cioè che le denominazioni non hanno bisogno dei panel di degustazione, “appellations don’t need tasting panels“.

I panel d’assaggio – scrive Goode – sembrano una buona idea. Ma possono creare un sacco di grattacapi ai vignaioli, soprattutto se questi vignaioli fanno dei vini che non si possono facilmente rubricare fra gli stili e le categorie esistenti”. Eccolo qui il nodo.

In definitiva, il fatto che le commissioni esistano o meno non cambia un granché per i vini più “ordinari”, perfino “mediocri”, all’interno di una denominazione, giacché quelli sugli scaffali ci sono già e continuerebbero in ogni caso ad esserci. Può cambiare invece per quelle denominazioni e per quei territori che stanno attraversando una fase di cambiamento, di innovazione. Be’, in quel caso, come sottolinea bene Jamie Goode, certi preconcetti autoimposti in materia di “stile” possono rivelarsi come una “camicia di forza”, e dunque un problema.

“Da persona che viaggia attraverso le regioni vinicole del mondo – scrive Goode -, quel che mi preoccupa è che vedo le difficoltà cui molti produttori seri stanno stanno facendo fronte a motivo di queste commissioni di degustazione. Talvolta, chi assaggia non sono degustatori dalla forte e ampia esperienza internazionale, e qualcuno sembra man mano perfino inventarsi i difetti. Altri hanno un conto da regolare, per esempio coi vini naturali, e usano la loro posizione per ergersi ad arbitri di stile. Fare e vendere vini è già abbastanza difficile di suo, senza avere da combattere battaglie del genere. Nel mentre quella di disporre di una panel di assaggio può sembrare una buona idea, nella pratica potrebbe essere più saggio eliminarli gradualmente”.

Ecco, la penso così, e non ce l’ho con i degustatori che si mettono a disposizione delle società o delle entità di certificazione. Anzi li ringrazio per il loro impegno. Il fatto è che purtroppo raramente a questi degustatori viene data la possibilità di fare esperienze di assaggio che superino l’ambito locale, e dunque sono costretti a valutare vini con una (inevitabile) soggettività impastata di consuetudini anch’esse locali. Il che non aiuta a sviluppare una più profonda ricerca identitaria, e finisce anzi per penalizzare chi è più all’avanguardia in un simile percorso.

Si obietterà che il problema è fare formazione. Sì, il problema è questo, ma non vedo possibile una simile soluzione capillarmente diffusa nel breve e neppure nel medio termine. Per cui, tra il rischio di continuare a “bocciare” vini in realtà molto buoni che hanno il “difetto” di essere pensati con prospettive diverse rispetto alle consuetudini e l’altro rischio che si prende di abolendo le commissioni, preferisco accollarmi il secondo.

A meno che ci sia la reale, concreta, fattiva intenzione di cambiare. Per adesso, dunque, io sto con Jamie Goode.


2 comments

  1. Umberto Cosmo

    Condivido in toto, l’evoluzione ha spesso le ali tarpate dalle convenzioni

  2. Angelo Peretti

    Angelo Peretti

    La penso esattamente così. Tarpare le ali all’innovazione rappresenta un costo sociale non accettabile.

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