Il futuro del Franciacorta è cominciato con l’erbamàt

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Il futuro del Franciacorta è nel segno dell’erbamàt, ne sono convinto. Soprattutto ora che ho assaggiato quanto questo tuttora oscuro e poco coltivato vitigno bresciano è in grado di donare ai vini franciacortini.

Con l’erbamàt ho un po’ di confidenza da qualche anno, da quando sul Garda occidentale, a Puegnago, Gianfranco Comincioli ha preso ad usarlo per il suo Perlì, un bianco fermo che ha come saldo il trebbiano Valtènesi. Nella presentazione del Perlì, Comincioli dice che il vino porge sensazioni di zagara e di cedro. Il che è vero, quand’è giovaninetto e la vena aromatica ha il sopravvento, ma poi a mio avviso si distingue, dal lato floreale, per delle delicate, ma nitide presenze di camomilla, sempre accompagnate dalla vena citrina e da un’acidità vibrante.

Quella camomilla e quei ricordi agrumati e quella tensione acida li ho ritrovati nelle quattro “tesi” che ho potuto avere nel calice a Coccaglio, al Castello Bonomi, terra di Franciacorta, prime pendici del monte Orfano. Dove sono state presentate le sperimentazioni condotte in un quadriennio, fra il 2011 e il 2014, spumantizzando delle basi che, insieme allo chardonnay e al pinot nero, avevano anche l’erbamàt in percentuali attorno al trenta e al quaranta per cento a seconda dell’annata.

Il trenta e il quaranta per cento sono quote alte rispetto a quel dieci per cento che, dal 2017, prevede il disciplinare di produzione del Franciacorta. Il che non vieta – lo spero – che si possa accrescere, col tempo, la presenza di quest’autoctono bresciano, soprattutto se i risultati sono quelli che ho trovato al Castello Bonomi.

Peraltro capisco bene la prudenza iniziale adottata dai vertici del Consorzio franciacortino quando s’è deciso di ammettere l’utilizzo dell’erbamàt. Secondo il sito consortile, l’obiettivo è quello di fare in modo che quest’uva “dia un contributo anche in termini sensoriali e gustativi ma che allo stesso tempo consenta di preservare le caratteristiche del Franciacorta”. In verità, di obiettivo ce n’è anche un altro, ed è quello di sfruttare l’elevata acidità e l’attitudine alla maturazione tardiva dell’erbamàt per fronteggiare le arsure del cambiamento climatico. Che è poi la mission che il Consorzio del Franciacorta ha affidato a Leonardo Valenti, docente dell’Università Statale di Milano, anch’egli al Castello Bonomi. E insomma, la questione è che anche nella annate più calde, l’erbamàt sa dare un taglio più verticale ai vini. Mica poco.

Ho accennato alle quattro tesi del Castello Bonomi, ma non le ho ancora descritte, e dunque mi accingo a farlo, avvertendo che ovviamente non sono confluite in bottiglie etichettate come Franciacorta, giacché qui l’erbamàt è oltre i limiti del disciplinare, e che comunque solo l’ultima annata, la 2014, andrà in commercio, all’incirca ad aprile prossimo, sotto il nome di Cuvée 1564, che è poi l’anno in cui un autore bresciano, Agostino Gallo, scrisse – probabilmente per la prima volta – dell’erbamàt (l’opera è “Le dieci giornate della vera agricoltura e piaceri della villa“).

Eccomi dunque ai quattro millesimi: tutti hanno due grammi di zucchero per litro, tutti sono stati sboccati quattro mesi fa (e dunque ci sono diverse durate di permanenza sui lieviti).

Cuvée 1564 2011 Castello Bonomi. La 2011 fu una bella annata in Franciaciacorta, e si sente, così come si avverte il positivo apporto di quel trenta per cento di erbamàt, a mio avviso, ed è proprio nella florealità della camomilla e nella traccia agrumata, peraltro entrambe delicate, quasi all’acquarello, in un millesimo di considerevole eleganza. (90/100)

Cuvée 1564 2012 Castello Bonomi. Stavolta l’erbamàt è al quaranta per cento. Non c’è la finezza del millesimo precedente, e c’è anzi qualche asperità che si potrebbe dire “malica”, legata insomma all’accresciuta presenza d’acido malico. Il vino è comunque interessante, e ancora ecco la camomilla che s’interseca con il frutto bianco. (84/100)

Cuvée 1564 2013 Castello Bonomi. All’olfatto ecco la gentilezza floreale. Il sorso è invece affilato e dinamico e a tratti travolgente (l’erbamàt è al quaranta per cento), finché tornano a far capolino i fiori. Semmai l’annata è ora deboluccia dal lato della complessità, ma potrebbe stupire nel tempo, con l’evoluzione. Come le tre annate precedenti è fuori commercio. (86/100)

Cuvée 1564 2014 Castello Bonomi. Sono appena ottocento bottiglie, usciranno in primavera e il mio consiglio è di prenotarne almeno un paio. Perché questo è un gran bel vino. L’erbamàt è tornato al trenta per cento, qui. Crosta di pane, spezie, fiori essiccati – ovviamente fiori di camomilla -, macedonia di frutta e tracce agrumate. Ed è affilatissimo. (91/100)

Che dire, in conclusione? Che se la Cuvée dell’annata 2014 diventasse uno dei benchmark del “nuovo” Franciacorta ne sarei felicissimo. Perché non si perde l’appartenenza al territorio sebino, ma anzi se ne esalta la “brescianità”. Dunque, dico che ci vuole coraggio ed è bene, a mio avviso, fare largo all’erbamàt, perché è questa la componente in grado di esaltare l’identità del territorio, la genialità del luogo, superando quel limite, per me troppo basso, che il disciplinare oggi fissa nel dieci per cento. Lo chardonnay e il pinot nero possono anche venir bene, qui, ma non sono identitari, l’erbamàt lo è.

Comunque, chapeau allo staff del Castello Bonomi per quanto ha saputo realizzare. Ne sono stato davvero impressionato.