Fiere del vino da ripensare, ma il modello è Vinitaly

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Sì, il Vinitaly di quest’anno era potenzialmente una grossa sfida. Adesso possiamo dircelo: alla vigilia fra gli addetti ai lavori strisciava un po’ di tensione. Perché poche settimane prima il ProWein non è che fosse andato benissimo per noi italiani. Il padiglione Italia, lassù a Düsseldorf, aveva i corridoi semivuoti, a differenza di quel che succedeva fra gli stand degli altri, soprattutto i francesi. E poi i prezzi dei nostri vini, con poche eccezioni, sono sotto tensione. Ribassista, ovviamente. Invece il Vinitaly ha registrato il pienone e in tanti hanno tirato un sospiro di sollievo. Anche più di uno.

Dite quel che volete, ma il Vinitaly resta irrinunciabile per il vino italiano. Lo sappiamo tutti, anche quelli che fanno i bastian contrari, anche quelli che sminuiscono, anche quelli che organizzano le manifestazioni “alternative” in concomitanza con le date del Vinitaly, quelle che non esisterebbero se non ci fosse il Vinitaly che attrae a Verona e dintorni masse enormi di gente interessata al vino. Lo capiscono bene anche i politici, che infatti affollano la prima giornata della manifestazione ed esternano su ogni possibile tema.

Che cos’è che fa funzionare il Vinitaly? Io credo che a far funzionare il Vinitaly sia il suo difetto principale, ossia il fatto di non essere quella fiera “per soli operatori” che puntualmente annuncia di essere e che mai è stata e mai potrà essere. Inutile nasconderselo: il Vinitaly è un grande evento popolare che tiene gli italiani ancorati al vino. Gli italiani che non resistono al richiamo della manifestazione veronese neppure adesso che il biglietto è stato alzato esponenzialmente. Infatti partecipano in massa, continuano a partecipare nonostante tutto. La fiera ha annunciato che i visitatori sono stati 125 mila anche quest’anno: vorrete mica che siano tutti operatori, vero?

Bene, se i consumatori sono affascinati dal Vinitaly, è impensabile che ne restino fuori coloro che a quei consumatori il vino lo vendono. Perché abbiamo tutti guardato all’estero, all’export, alla prospettiva internazionale, e invece adesso – solo adesso – ci accorgiamo che il mercato italiano conta un sacco. L’ha capito anche il Vinitaly, che infatti ha aperto l’edizione 2019 con la presentazione di un’indagine titolata “Mercato Italia – Gli italiani e il vino”, commissionata all’Osservatorio Vinitaly-Nomisma Wine Monitor. Un’indagine che dice che qui da noi “si beve meno, ma lo fanno praticamente tutti” e che consumo interno vale 14,3 miliardi di euro. Mica bazzecole.

Angelo Gaja, nel talk show d’apertura del Vinitaly, ha sottolineato che è possibile che ci sia bisogno di ripensare le fiere del vino. Sono d’accordissimo con lui, ma probabilmente il modello secondo il quale farle cambiare è quello del Vinitaly, che è da tarare, da sistemare, da modernizzare, certo, ma funziona.

Gaja ha anche auspicato una futura alleanza tra il Vinitaly e Vinexpo, la fiera francese per eccellenza, per aggredire congiuntamente i mercati più lontani, l’Asia, in futuro l’Africa. Il direttore generale di Veronafiere, Giovanni Mantovani, ha ammesso che questo “è un fascicolo su cui stiamo lavorando”. Ma ha anche orgogliosamente annotato che le alleanze estere si fanno “se in quel paese qualcuno è più bravo di noi”.

Con Gaja sono in disaccordo solo su un punto, ossia sul rischio che Vinexpo, spostandosi d’ora in poi ogni due anni da Bordeaux a Parigi, possa diventare dominante: il sostanziale flop della prima edizione di Wine Paris – nata dalla joint venture tra Vinisud e Vinovision – non lascia presagire granché di buono. Io c’ero, a Wine Paris, e i corridoi erano semivuoti. Anche i corridoi fra gli stand dei francesi.

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