Evviva la metonimia (insomma, mi piace dire bollicine)

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Chiamasi metonìmia o alla greca metonimìa (cambia l’accento, a me piace di più quello greco) quel “procedimento linguistico espressivo, e figura della retorica tradizionale, che consiste nel trasferimento di significato da una parola a un’altra in base a una relazione di contiguità spaziale, temporale o causale”. Così dice la Treccani, Per esempio, è una metonimia l’uso del nome del contenente per il contenuto, come accade quando si dice “bere un bicchiere” o “finire una bottiglia”. Ecco, a me piace bere una bollicina, e dunque sono un seguace della metonimia.

Lo scrivo perché nel periodo pre natalizio è riemersa su Facebook l’ennesima (pacata) riprovazione verso chi parli di bollicine al posto di spumanti. O meglio, il dissenso, che condivido, era per chi usa sparkling al posto di spumante, ma poi si è passati a obiettare anche sul termine bollicine. A me piace, ripeto, dire bollicine, anche se non disdegno scrivere di spumante. Bollicina ha un bel suono, mi riporta alla gradevolezza sonora della carbonica minuta che scivola sul palato. Mentre non sopporto che si dica perlage, che è una parola nella quale trovo una risonanza violenta per via di quell’accento sulla a, che mi sa di bolla troppo grossa che scoppia (meglio dire effervescenza, dunque). Ma ognuno ha le sue idiosincrasie.

Sempre dalla Treccani: idiosincraṡìa, “incompatibilità, avversione, ripugnanza verso determinati oggetti, per lo più astratti, verso situazioni o anche persone”.


1 comment

  1. Maurizio Onorato

    Angelo, mi spiace ma, ad onta degli tuoi undici anni in meno rispetto al sottoscritto, sei anche tu datato. Che vuoi che sappiano i giovani d’oggi di metonìmia o metonimìa, visto che il loro vocabolario, tranne ovviamente lodevoli eccezioni guardate perciò con sospetto, si riduce a quanto il T9 e dintorni sono in grado di digerire sul cellulare, cioè poco: non a caso, non riuscendo a disattivarlo (ho, appunto, i miei anni!) mi tocca ogni volta “correggere il correttore” per dire quello che mi garba. Scherzi a parte mi va bene bollicine, semmai mi disturbano talune idiozie sul tema sul quale, essendo di moda, tutti pontificano a proposito e, soprattutto, a sproposito.
    Io almeno, rimettendoci di tasca, mi son fatto passare anni fa lo sfizio di “leggere” una catasta di Oltrepò 100% Pinot Nero di dieci anni sui lieviti e, colto da un colpo di fulmine, col supporto tecnico dell’enologo Giacomo Mela e degustativo del sommelier Luca Purelli per la messa a punto della liqueur d’expedition, commuovermi per avere visto giusto. Sì perché la bollicina, che non è solo Prosecco – con tutto il rispetto – come oggi ci vogliono far credere, può commuoverti fino alle lacrime. È allora, mettendoci appunto le mani e la faccia, che ho capito che la liqueur d’expedition ti permette di barare e in casi estremi inventare addirittura un prodotto che nulla a che fare con il vino d’origine o essere, invece, un prezioso evidenziatore per sottolineare le note più intriganti e preziose che il vino base cela e che vogliono essere portate a galla … dalle bollicine appunto.

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