Escamotage e le nuove frontiere moscatiste

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Il marchio che hanno registrato è Escamotage. Nel logo “camo” è scritto più grande, oppure, nei testi, è in grassetto, per evidenziarlo, perché Camo è una contrada del comune di Santo Stefano Belbo, in Piemonte, e l’idea nasce lì.

Il progetto unisce sei giovani vignaiolo e mira a far nascere (e riconoscere, possibilmente) un vino bianco secco con le uve del moscato bianco di Canelli. Niente a che vedere con quella cosa dell’Asti Secco che mi fece raggelare il sangue qualche tempo fa. Dietro c’è un pensiero, anche se per stare dentro alla Babele delle normative i fondatori hanno dovuto fare lo slalom intorno alla burocrazia, e ancora lo fanno. “Escamotage – dice il sestetto – è un nome ‘di protesta’ contro le innumerevoli difficoltà burocratiche riscontrate per trovare un nome a questo vino”. Secondo il dizionario Treccani, escamotage è infatti un vocabolo che indica un “inganno elegante o ingegnoso, gioco di abilità politica e diplomatica, o in genere sotterfugio per aggirare un ostacolo”.

Ad ogni modo, i giovani si sono uniti in associazione, Aroma di un Territorio, e si sono dati un “disciplinare” interno, che regolamenta piuttosto minuziosamente i lavori agricoli e la trasformazione vinicola. Vi si stabilisce che i vini che si fregiano del marchio devono essere fatti con uve provenienti da vigneti composti esclusivamente dal moscato bianco di Canelli e che la zona di produzione comprende tutti i paesi situati tra San Rocco Seno d’Elvio partendo da ovest, Costigliole d’Asti partendo da nord, Perletto da sud e San Marzano Oliveto da est, nelle province di Asti e Cuneo, ma si sottolinea anche che “il cuore della produzione è formato dai paesi di Santo Stefano belbo, Castglione Tinella, Cossano Belbo, Coazzolo”. Per ora c’è anche un limite massimo di produzione, che non può superare le diecimila bottiglie a marchio per ciascuna azienda.

Di Escamotage ho potuto assaggiarne due su sei. Non è una prova esaustiva, d’accordo, ma qualche segnale credo di essere comunque riuscito a coglierlo. Il primo, e il più importante, è che l’aromaticità del moscato di Canelli, che adoro nella tipologia frizzante, regge anche nella versione secca, affermando perentoriamente la propria florealità e dando volume e grassezza alla tropicalità del frutto. Il secondo è l’assenza di quei fastidiosi finali amaricanti che troppo spesso accompagnano le uve aromatiche quando siano in versione secca, e questo è un pregio non da poco. Il terzo è che si tratta di un bianco che apre le opzioni di abbinabilità dei vini moscatisti, proponendosi come un aperitivo di consistente sostanza o come un vino da accostare al pesce, sì, ma anche a certe carni d’aia e di cortile, perché struttura ce n’è parecchia. Insomma, tre punti di forza piuttosto importanti. Annoto tuttavia, per completezza, un aspetto sul quale ritengo occorra ancora ragionare – e sperimentare – ed è una certa carenza di due elementi che ritengo – l’uno o l’altro o entrambi – essenziali in un vino bianco, ossia la freschezza e la sapidità: le ho trovare contratte, la seconda pressoché assente, ma credo che ce ne sia bisogno e mi domando se spingere così avanti le scelte agronomiche verso una maturazione estrema (qui mi pare che, di fatto, conduca il regolamento) non possa fare da freno. Pur con questo, al progetto mi sono fatto convinto che valga la pena di crederci, e di incoraggiarlo, cosa che faccio qui, invitando i sei giovani protagonisti a proseguire convinti nella loro missione.

Di seguito accenno a ciascuno dei due vini, per dare una qualche idea di come siano questi bianchi dell’Escamotage, avvertendo che escono come generico “vino bianco”, in quanto sono al di fuori da ogni menzione geografica prevista sul territorio (ed è un peccato, non già per i sei, ma per il teritorio). Conseguentemente, in etichetta non compaiono né il nome del vitigno, né l’annata (ed è un peccato, di nuovo).

Finalmente Cascina Lodola. L’espressione aromatica è molto, molto floreale. Intendo che pare di camminare in mezzo al sambuco e a un rigoglio di altre piante che fanno fiori bianchi profumatissimi nel mezzo di una giornata di sole. In bocca, invece, è una macedonia di frutta che tropicaleggia, e dunque l’ananas, molto maturo e anche sciroppato, e il mango e anche la pesca gialla e un che di melone. Un palato “gustoso”, direi che questo è l’aggettivo giusto. Tredici gradi e mezzo di alcol dichiarati in etichetta. (87/100)

Alma Tojo Vittorio Bocchino. Si propone con austerità, quasi con ritegno, e gli ci vuole qualche tempo per distendersi verso i toni del fiore essiccato, attraversati da una sottile vena verde e da un accenno di frutta in guscio. La bocca invece declina subito l’origine aromatica del vitigno e si tratta di un’aromaticità che direi ben gestita. Tornano i fiori, che si fanno in rilievo su un substrato piuttosto deciso di frutta esotica molto matura e su un fondo di mandorla. Quattordici per cento d’alcol sull’etichetta, e peraltro l’acolicità non dà fastidio al sorso. (80/100)

Vorrei, per finire, citare tutte e sei le aziende che aderiscono al progetto. Sono: 499, Guido Vada, Cerutti, Cascina Lodola, Tojo, Simone Cerruti, Tenuta il Nespolo e Teresa Soria. Buon lavoro, ragazzi.