Eh, sì, i grandi classici sono grandi classici

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Non ho mai avuto simpatia per l’aggettivo “classico” appiccicato al nome di una denominazione di origine. Mi dice poco, francamente. Perché dentro ci si trova di tutto e di più, in fatto di vino. È solo un’etichetta. La classicità vera è altra cosa.

Sono invece d’accordo con Daniele Cernilli che sul suo DoctorWine dedica una riflessione ai “grandi classici” del vino. Quelli veri, quelli che hanno lasciato un’impronta indelebile.

Anche nel vino esistono i classici. “Lo sono i Grand Cru Classé di Bordeaux, di Borgogna – scrive Cernilli -, lo sono alcuni Champagne come il Dom Perignòn o alcuni grandi bianchi di Mosella come quelli di Egon Müller. Lo sono persino alcuni vini del Nuovo Mondo, il Grange di Penfold’s in Australia, o il californiano Opus One. E, ovviamente, ce ne sono anche da noi. I Barolo dei Mascarello, dei Conterno, ma anche alcune selezioni di Pio Cesare, dei Marchesi di Barolo, di Casa Mirafiore. I grandi rossi di Bruno Giacosa. Gli Amarone di Bertani, di Masi e di Quintarelli. E poi alcuni vini di Antinori, di Ricasoli, di Frescobaldi, di Biondi Santi, di Lungarotti, di Mastroberardino, di Tasca d’Almerita”.

Ripeto, sono d’accordissimo. Sottoscrivo anche quel che viene dopo nella riflessione di Cernilli, ossia che nel mentre l’idea della classicità vinicola appartiene a pieno titolo al patrimonio della letteratura enologica internazionale, “da noi sembra quasi che se si parla di aziende simili allora si è come minimo dei ‘passatisti’, gente che non capisce il nuovo che avanza e che si rifugia dietro ai soliti noti”.

Giusto. Credo che i veri “grandi classici” del vino debbano far parte del patrimonio di conoscenza di chiunque si occupi di vino. Di chi lo produce, di chi lo vende, di chi ne scrive, di chi se ne appassiona. Perché sono punti di riferimento. Così come chi scrive deve leggere i grandi classici della letteratura e chi dipinge deve studiare i grandi classici dell’arte e chi progetta deve conoscere i grandi classici del design e dell’architettura.

Poi, certo, è bello anche ricercare il nuovo, l’inusuale, il creativo. Così “va benissimo, ed è anche interessante e divertente, fare i talent scout del vino – riprendo ancora Cernilli -, a patto però che non ci si dimentichi cosa siamo e da dove veniamo” e che si conoscano quei produttori e quei vini che “rappresentano le basi, solide, professionali, di una grande costruzione che poi si articola in mille altri modi, ma che senza di loro non sarebbe stato possibile edificare e consolidare”. Potevo dirlo con parole mie, ho preferito usare le parole sue, ché sono perfette.